di Giulio Andreani

1. Premessa

A oltre un anno di distanza dalla pubblicazione della circolare 23 luglio 2018 n. 16 [1], l’Agenzia delle entrate è ritornata ad occuparsi della disciplina della transazione fiscale e delle questioni interpretative sollevate dalle disposizioni contenute nell’art. 182-ter l.f., che sono state sostanzialmente trasposte nel D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice dalla crisi di impresa), seppur con un’integrazione di assoluta rilevanza, qual è quella concernente la possibilità di omologazione della transazione fiscale da parte del tribunale, nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, anche in assenza di adesione da parte del Fisco alla proposta formulatagli dall’impresa debitrice (art. 48, comma 5).

Le precisazioni che destano maggiore interesse, ai fini della predisposizione della proposta di trattamento dei crediti tributari, riguardano (i) la natura “endogena” ovvero “esogena” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività d’impresa nell’ambito del concordato preventivo in continuità, (ii) i criteri di distribuzione ai creditori del patrimonio del debitore, (iii) la possibilità di derogare al principio del divieto del trattamento deteriore dei crediti fiscali con riguardo ai cosiddetti “creditori strategici”, (iv) la certificazione dei crediti tributari, (v) i criteri di valutazione della proposta di transazione fiscale da parte del Fisco, (vi) il coordinamento della transazione fiscale con gli istituti deflativi del contenzioso, (vii) la possibilità di dilazionare il pagamento dei debiti fiscali oltre l’arco temporale oggetto del piano di risanamento, (viii) il comportamento dell’Amministrazione finanziaria in caso di moratoria ultrannuale nel concordato preventivo in continuità, (ix) gli effetti della rinegoziazione della transazione fiscale nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, (x) i criteri da utilizzare per l’individuazione dell’Ufficio competente.

2. Natura e utilizzo dei flussi di cassa nel concordato preventivo con continuità

Com’è noto, ai sensi dell’art. 160, comma 2, l.f. la proposta concordataria può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) (la medesima regola è ribadita nell’art. 182-ter con riguardo alla falcidia dei crediti tributari e previdenziali); il trattamento stabilito per ciascuna classe, se i creditori sono ripartiti in classi, non può però avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.

Con riguardo ai crediti muniti di privilegio generale mobiliare (per i quali la prelazione ha a oggetto l’intero patrimonio del debitore e non singoli beni), tuttavia, la concreta applicazione di questa disposizione è foriera di alcune incertezze in ordine all’utilizzo del ricavato della liquidazione, poiché esso:

  • secondo la cosiddetta “tesi della priorità assoluta” dovrebbe essere rigidamente destinato ai creditori privilegiati secondo l’ordine delle cause di prelazione, con la conseguenza che uncredito privilegiato potrebbe essere soddisfatto solo se vengono prima integralmente soddisfatti i crediti privilegiati di rango superiore [2];
  • secondo la cosiddetta “tesi della priorità relativa” potrebbe essere invece destinato alla soddisfazione di tutti i crediti privilegiati o chirografari anche in assenza dell’integrale soddisfacimento di quelli di rango superiore, essendo unicamente necessario assicurare al credito privilegiato un trattamento migliore rispetto a quelli di rango inferiore [3].

Sulla base di alcuni indirizzi interpretativi l’adozione di una di tali tesi, in luogo dell’altra, si rifletterebbe anche sui criteri di distribuzione degli apporti esterni (“finanza esterna” o “esogena” o, più correttamente, “surplus concordatario”), i quali sarebbero soggetti al medesimo trattamento previsto relativamente alla distribuzione del patrimonio ricavabile dalla liquidazione dell’impresa, vale a dire del patrimonio di cui al comma 2 del citato art. 160. A chi scrive pare peraltro che, mentre da un lato la “tesi della priorità relativa” sia difficilmente applicabile ai fini dell’attribuzione ai creditori del predetto patrimonio, in quanto contrastante con il disposto della disposizione testé menzionata e con il soddisfacimento che i crediti di rango superiore riceverebbero alternativamente in caso di fallimento, dall’altro lato la distribuzione delle risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” o “esogena”, e più in generale di quelle che costituiscono il “surplus concordatario”, possa essere eseguita senza tenere conto dell’ordine delle cause di prelazione, in quanto non facenti parte di quel patrimonio che in caso di liquidazione dovrebbe essere ripartito secondo tale ordine [4].

Poiché le risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” sono sottratte alle regole del concorso e possono essere quindi liberamente (o comunque più liberamente) utilizzate dal debitore, è dirimente stabilire se in tale nozione rientrino o meno anche i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività da parte del debitore nell’ambito del concordato preventivo in continuità. Anche su tale questione, invero, si registrano due diverse correnti di pensiero:

  1. secondo un orientamento “restrittivo”, nella nozione di “finanza esogena” rientrerebbero unicamente le risorse finanziarie messe a disposizione da terzi senza vincolo di restituzione, mentre “la prosecuzione dell’attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell’attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale” [5]. Per questa corrente di pensiero, dunque, i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività rientrerebbero nella nozione di “nuova finanza” ma non in quella di “finanza esterna” (tuttavia spesso tali termini sono utilizzati anche come sinonimi e possono quindi essere fonte di equivoci; a ben vedere l’espressione più appropriata per qualificare le risorse di cui trattasi, come detto, dovrebbe essere quella di “surplus concordatario”) [6];
  2. secondo un diverso orientamento, invece, le risorse finanziarie originate dalla prosecuzione dell’attività di impresa (ovvero i flussi finanziari disponibili o free cash flow), sebbene da essa provenienti, avrebbero natura “esogena” , poiché non fanno parte del patrimonio dell’impresa debitrice all’apertura della procedura [7]. Per questa diversa corrente di pensiero, infatti, il valore del patrimonio del debitore esistente in tale momento costituisce il limite di soddisfazione della garanzia dei creditori prelatizi ex 160, comma 2, l.f. e, perciò, andrebbe tenuto distinto dal valore del patrimonio del debitore successivamente formatosi per effetto della prosecuzione dell’attività, con il quale va invece identificato il “surplus concordatario” al pari degli apporti finanziari esterni al patrimonio del debitore [8]. In altri termini, sulla base di questo indirizzo, al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione e alla regola del concorso non dovrebbero soggiacere le risorse, di qualsiasi natura, che eccedono l’ammontare ricavabile dalla liquidazione dell’attivo (determinato sulla base della relazione prevista dal citato art. 160, comma 2).

Ciò posto, con la circolare n. 16/2018 l’Agenzia delle entrate aveva mostrato di aderire all’orientamento restrittivo, avendo con essa sostenuto che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, da parte dell’impresa debitrice nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, avrebbero avuto natura “endogena” (in quanto non derivanti da un apporto esterno) e sarebbero stati quindi da considerare parte del patrimonio di tale impresa a un duplice fine:

  1. per determinare il valore del patrimonio realizzabile in caso di liquidazione che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182-ter della legge fallimentare, un professionista indipendente deve comparare con l’offerta formulata al Fisco dall’impresa debitrice mediante la proposta di transazione fiscale, allo scopo di attestarne la necessaria convenienza per l’Erario rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione dell’impresa stessa;
  2. per stabilire se i suddetti flussi possano essere destinati liberamente dall’impresa debitrice al soddisfacimento di alcuni crediti piuttosto che di altri, posto che il patrimonio “endogeno”, a differenza di quello “esogeno”, come detto, almeno secondo l’orientamento più “rigido”, dovrebbe essere utilizzato per il pagamento dei creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge e non liberamente (art. 160, c. 2, l.f.).

L’Agenzia delle Entrate sta ora rettificando il tiro, affermando che, nonostante la natura “endogena” dei flussi di cui trattasi, di essi non va tenuto conto ai fini della comparazione sub a). Questa precisazione è assai opportuna, perché ciò che il citato art. 182-ter richiede di comparare è chiaro: il pagamento offerto con il soddisfacimento discendente dall’alternativa liquidazione fallimentare, per quantificare il quale il professionista indipendente deve considerare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza tener conto di scenari non realizzabili in tale circostanza, qual è appunto quello della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo ma non nel fallimento, e dunque senza considerare i flussi suscettibili di essere generati solo da tale attività.

L’Agenzia pare inoltre favorevole all’adozione di una disciplina meno rigida circa la distribuzione ai creditori dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività.

Ad ogni buon conto, con riguardo alla posizione assunta dall’Agenzia delle entrate merita in primis rilevare che l’asserzione circa la natura “endogena” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, che assume rilevanza ai fini della determinazione del patrimonio da distribuire ai creditori secondo le regole del concorso, trae origine dai principi sopra richiamati, secondo cui (i) la prosecuzione dell’attività d’impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (ex art. 2740 c.c.) e (ii) non sarebbe consentito azzerare mediante il concordato il rispetto delle legittime cause di prelazione (ex art. 2741 c.c.). In realtà, tale posizione non sembra considerare che:

  • la regola generale dell’attribuzione ai creditori privilegiati di tutto il patrimonio del debitore fino a concorrenza dei loro crediti posta dall’art. 160, comma 2, l.f. – che è indefettibile nel concordato liquidatorio, salvo l’apporto di nuova finanza che può essere utilizzata anche senza il rispetto di tale ordine, proprio perché non promana dal patrimonio del debitore e non è vincolata a garantirne le obbligazioni – deve essere nel concordato in continuità limitata, quanto al tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e, quanto all’entità, al patrimonio del debitore esistente in quel momento [9];
  • la verifica della violazione o meno dell’ordine della prelazione deve essere quindi eseguita con riferimento alla predetta data, perché ciò che è valutabile ai fini della capienza è solo il patrimonio del debitore esistente in tale momento, e non quello che residuerà, dopo vari anni e vari interventi altrimenti inattuabili. Infatti, senza concordato il risanamento non sussisterebbe per nulla, o avrebbe quanto meno una ben diversa consistenza, e certamente non sussisterebbero in tal caso i flussi generabili dalla continuità dell’attività, che è incompatibile con la liquidazione;
  • la natura “esogena” di un’entrata non dipende dalla fonte dalla quale quest’ultima proviene, ma dal maggior valore derivante dall’attuazione del piano concordatario e comprende dunque anche quello generato dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa.

Una volta determinato il patrimonio da destinare ai creditori secondo le regole del concorso, resta in ogni caso necessario stabilirne il criterio di distribuzione, posto che – come dianzi riferito – dall’applicazione delle disposizioni recate dal comma 2 dell’art. 160 l.f. potrebbe alternativamente discendere che:

  • non può essere pagato un creditore privilegiato di grado inferiore, e a maggior ragione un creditore chirografario, se prima non sono stati integralmente soddisfatti i creditori privilegiati di rango superiore (tesi della “priorità assoluta”);
  • è ammissibile il pagamento di creditori privilegiati di rango inferiore e chirografari, anche quando i crediti privilegiati di grado superiore non sono stati integralmente soddisfatti, purché a questi ultimi sia riservato un trattamento migliore (tesi della “priorità relativa”).

Si è inoltre aggiunto che, anche ferma restando l’applicabilità della regola della “priorità assoluta” con riguardo al patrimonio di cui al comma 2 dell’art. 160, la ripartizione del “surplus concordatario”, cioè dell’eccedenza generata da apporti di terzi e dai flussi gestionali, dovrebbe poter avvenire senza dover tener necessariamente conto dell’ordine delle cause di prelazione.

In merito a questo secondo profilo l’Agenzia delle Entrate, pur continuando ad aderire all’indirizzo che esclude la natura di “finanza esterna” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività d’impresa (e quindi la possibilità di destinarli liberamente), pare orientarsi verso l’applicazione della tesi della “priorità relativa” circa la ripartizione del “surplus concordatario”.

Pertanto, allo stato dell’arte, ai fini dell’approvazione della proposta di transazione fiscale formulata nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, pur essendo i suddetti flussi da qualificare come “endogeni” e dunque non potendo essere considerati dall’Agenzia delle Entrate liberamente attribuibili ai creditori:

la comparazione, fra il soddisfacimento dei debiti fiscali offerto con la proposta di transazione

  • fiscale e quello alternativamente conseguibile dal Fisco mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa, può essere eseguita senza far concorrere tali flussi alla formazione di detto patrimonio;
  • è sufficiente prevedere un trattamento dei crediti fiscali più vantaggioso di quello destinato ai crediti privilegiati di grado inferiore e a quelli chirografari, purché sia al tempo stesso migliore rispetto al soddisfacimento che tali crediti riceverebbero mediante l’alternativa liquidazione, e non è necessario stabilirne l’integrale pagamento fino a concorrenza del valore del patrimonio comprensivo di tali flussi.

Le regole sopra esposte relativamente ai criteri di attribuzione dell’attivo ai creditori sono applicabili, come detto, al concordato preventivo in continuità, ma, in ogni caso, non all’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis, posto che in tale ambito i creditori possono liberamente e singolarmente prevedere un trattamento dei loro crediti differenziato, indipendentemente da quello convenuto con il debitore dagli altri creditori, privilegiati di grado superiore o inferiore o chirografari che siano; tuttavia restano comunque fermi anche in questa ipotesi il divieto di trattamento deteriore dell’erario e la necessità che il soddisfacimento dei crediti fiscali proposto sia più conveniente di quello discendente da qualsiasi altra soluzione concretamente praticabile (peraltro il Codice della crisi d’impresa prevede, con decorrenza da quando entrerà in vigore, che l’alternativa da considerare sarà costituita anche a questo riguardo dalla liquidazione dell’impresa debitrice).

3. Il trattamento riservato ai creditori strategici

Il tema concernente i criteri di distribuzione delle risorse finanziarie (endogene o esogene) disponibili si connette al rispetto del divieto del trattamento deteriore dei crediti erariali imposto dal comma 1 dell’art. 182-ter, a norma del quale il soddisfacimento proposto per i crediti tributari privilegiati, in termini di percentuale, tempi di pagamento ed eventuali garanzie offerte, non può essere meno conveniente rispetto a quello proposto ai creditori del medesimo rango o di rango inferiore, mentre il soddisfacimento proposto per i crediti tributari aventi natura chirografaria, o degradati in chirografo, non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole [10].

Tale confronto si può presentare controverso in presenza dei cosiddetti “creditori strategici”, ovverosia dei fornitori di beni e servizi essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare il miglior soddisfacimento dei creditori. Infatti, nell’ambito del concordato preventivo con continuità aziendale l’art. 182-quinquies, comma 5, consente al debitore di chiedere al tribunale di essere autorizzato a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori; analogamente, un trattamento

particolarmente favorevole può essere previsto per quei fornitori che, seppur senza ricevere alcun pagamento anticipato rispetto agli altri creditori, si impegnano a continuare a fornire beni e servizi all’impresa debitrice, fermo restando quindi il loro pagamento mediante un riparto ordinario congiuntamente ad altri creditori. Conseguentemente, nonostante la loro natura sia il più delle volte chirografaria, ai suddetti creditori viene offerto dall’impresa concordataria – per spingerli a continuare a fornirle i loro beni e servizi – un soddisfacimento migliore di quello proposto ai creditori privilegiati, in deroga all’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge.

Ci si è perciò chiesti se la previsione di un pagamento dei “creditori strategici” chirografari superiore a quello proposto per i crediti fiscali potesse dar luogo a una violazione del principio del trattamento non deteriore dell’Erario sopra enunciato. A ben vedere, un miglior trattamento dei “creditori strategici” non è mai parso penalizzante per il Fisco, avendo esso necessariamente lo scopo di rendere possibile, in virtù della regolare fornitura di beni e servizi essenziali, la prosecuzione dell’attività dell’impresa e, attraverso di essa, il miglior soddisfacimento dei crediti, inclusi quelli tributari; tuttavia, in assenza di disposizioni legislative e di istruzioni in merito, e quindi nell’impossibilità di prevedere il comportamento dell’Amministrazione finanziaria (che non si era espressa in proposito nell’ambito della circolare n. 16/2018), le imprese hanno spesso prudentemente evitato di offrire ai creditori di cui trattasi un soddisfacimento inferiore a quello proposto all’erario, assumendosi il rischio del mancato sostegno da parte di tali fornitori.

Su questa questione l’Agenzia delle entrate ha ora assunto posizione, confermando opportunamente la legittimità della deroga del principio del divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari a favore dei “creditori strategici”, alla luce del trattamento preferenziale ad essi espressamente riconosciuto (dal citato art. 182-quinquies l.f.) in ragione della essenzialità del loro apporto alla gestione dell’impresa e della salvaguardia della sua prosecuzione. Tuttavia, proprio perché il trattamento più favorevole concesso ai creditori strategici deroga al divieto di trattamento deteriore, il debitore non può limitarsi ad enunciare il requisito dell’indispensabilità delle prestazioni da questi rese, ma deve dimostrarne la ricorrenza in maniera oggettiva, precisa e tangibile.

4. I criteri di valutazione della proposta di transazione fiscale

Oltre ad operare il confronto con gli altri creditori per verificare il rispetto del divieto del trattamento deteriore dell’erario (tanto nel concordato preventivo quanto nell’accordo di ristrutturazione dei debiti), gli Uffici dell’Agenzia – ai fini della valutazione della proposta di transazione fiscale che viene formulata loro e dell’espressione del voto che ne consegue – sono chiamati principalmente ad esaminare il requisito della convenienza di tale proposta rispetto alle alternative concretamente praticabili, costituite generalmente dalla liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice [11]: si tratta quindi di comparare l’importo che il Fisco può percepire sulla

base della proposta di transazione fiscale oggetto di esame e, alternativamente, mediante la liquidazione dell’impresa, alla luce dei valori realizzabili attraverso di essa e dell’ammontare attribuibile all’Erario sulla base delle legittime cause di prelazione in sede di assegnazione ai creditori delle somme realizzate mediante la liquidazione stessa. Tale convenienza è oggetto di specifica attestazione da parte del professionista indipendente incaricato dell’attestazione del piano ovvero di altro professionista munito dei requisiti di cui all’art. 67, comma 2, lett, d), l.f., ma l’Agenzia delle entrate ha il potere di disattendere le risultanze di tale attestazione, qualora la ritenga non attendibile ovvero ritenga non sostenibile il piano di risanamento, esplicitandone i motivi. Del pari, poiché tutte le previsioni di realizzo dei flussi finanziari futuri, e conseguentemente anche quelle di pagamento dei creditori, si fondano sul piano di risanamento, l’Agenzia deve accertare la sostenibilità del piano, valutando la coerenza delle assunzioni su cui esso si fonda con la situazione di fatto dell’impresa e con i risultati previsti.

In particolare, come già evidenziato nella circolare n. 16/2018, l’Agenzia delle entrate può contestare i valori di liquidazione indicati nella relazione del professionista all’uopo incaricato qualora appaiano sottostimati o incompleti oppure potrebbe giudicare il piano di risanamento non fattibile, nonostante la presenza di un’attestazione positiva.

Secondo l’Agenzia è inoltre necessario che venga valutata la serietà della proposta, allo scopo di evitare di dar corso a un risanamento a favore di soggetti che hanno sistematicamente e volontariamente omesso nel corso degli anni il versamento delle imposte dovute, accrescendo l’importo dei debiti tributari a vantaggio di altri creditori, così come occorre evitare di concedere stralci a favore di soggetti che hanno compiuto atti distrattivi. A questo riguardo deve essere tuttavia considerato che scopo della transazione fiscale è quello di consentire al Fisco il recupero dei propri crediti nella misura più elevata possibile; pertanto, se una proposta di transazione è per l’Erario più conveniente di qualsiasi altra soluzione e il piano su cui si fonda è affidabile, tale proposta deve essere approvata dall’Agenzia, in applicazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, indipendentemente dalla commissione di comportamenti censurabili da parte degli amministratori dell’impresa debitrice. Siffatti comportamenti, da un lato, devono essere considerati ai fini della determinazione delle somme realizzabili in caso di liquidazione e di fallimento attraverso il possibile esercizio di azioni revocatorie e di responsabilità verso gli organi sociali; dall’altro lato, devono essere perseguiti nelle competenti sedi, in particolare a seguito delle modifiche introdotte alla disciplina dei reati fallimentari dal nuovo codice della crisi d’impresa (si veda l’articolo 341, comma 3,), ma non dovrebbero influenzare una valutazione che è prettamente economica, costituita da un calcolo di convenienza economica comparata avente a oggetto le alternative possibilità di recupero del credito.

Deve infine essere valutato l’effetto positivo che il processo di risanamento, di cui la transazione fiscale è parte, produce sia in termini economici generali, in virtù della conservazione di una struttura produttiva e della salvaguardia dell’occupazione del personale in essa impiegato, sia della capacità dell’impresa risanata di generare, direttamente e indirettamente, futuri redditi su cui si renderanno dovute ulteriori imposte da parte dell’impresa stessa, dei suoi dipendenti e dei suoi fornitori, che certamente non verrebbero prodotti in caso di fallimento di quest’ultima. Anche questi fattori devono quindi essere tenuti in considerazione ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione fiscale nel suo complesso e della comparazione tra il soddisfacimento offerto e quello alternativo in particolare.

5. La certificazione dei crediti tributari

Il comma 2 dell’art. 182-ter impone agli uffici di certificare, entro trenta giorni dalla proposta, l’ammontare e la composizione dei debiti tributari, senza pregiudizio dell’ulteriore attività accertatrice (essendo venuto meno l’effetto del “consolidamento del debito fiscale”, qualunque fosse stato il significato da attribuire a tale locuzione e quindi anche nel caso in cui ne dovesse discendere un effetto preclusivo di un’attività di accertamento futura da parte dell’Amministrazione finanziaria, al contrario di quanto peraltro ritenuto al riguardo dall’Agenzia delle Entrate); ciò allo scopo di verificare l’esatta quantificazione degli stessi con riguardo sia all’esame della convenienza economica della proposta sia – nell’ambito del concordato preventivo – al peso e all’incidenza del voto dell’Agenzia delle Entrate rispetto al raggiungimento delle maggioranze necessarie per l’approvazione della proposta concordataria di cui all’art. 177 della legge fallimentare. In caso di mancata corrispondenza tra l’importo dei crediti dichiarato dal debitore e quello certificato dal Fisco e della mancata rettifica della proposta da parte del debitore, fermo restando che in merito al voto concernente la differenza emersa provvede il Giudice delegato alla procedura ai sensi dell’art. 176, comma 1, della legge fallimentare, l’Agenzia può agire in via ordinaria per l’accertamento della maggior credito rivendicato e, in caso di esclusione dal voto del suo credito per tale differenza, può opporsi all’esclusione in sede di omologazione del concordato a norma del comma 2 del citato art. 176, qualora la sua ammissione al voto per l’importo di tale maggior credito “avrebbe avuto influenza sulla formazione delle maggioranze”. Una simile evenienza non può invece presentarsi nell’accordo di ristrutturazione dei debiti, posto che in questo caso l’approvazione della proposta di transazione fiscale si manifesta non con un voto, ma con la sottoscrizione di un apposito accordo da parte del debitore e dell’agenzia delle Entrate (oltre che dell’agente della riscossione per quanto attiene agli aggi), il quale presuppone che gli importi dovuti all’erario siano stati preliminarmente definiti tra le parti.

Nell’ambito del concordato preventivo, l’ammontare dei crediti tributari da certificare è quello esistente alla data di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’ammissione alla procedura concordataria, giacché è da quel momento che si producono gli effetti di cui all’art. 168, comma 1 (a norma del quale “Dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo, i creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore”). La stessa regola vale anche in caso di presentazione della domanda “con riserva”, prevista dal comma 6 dell’art. 161, senza considerare eventuali debiti posteriori.

Nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, invece, la data di riferimento della certificazione dei crediti tributari è quella di presentazione della proposta di transazione fiscale, fatto salvo l’aggiornamento reso necessario dall’eventuale mancato pagamento di debiti tributari successivi.

Nella certificazione dei crediti non ancora iscritti a ruolo [12] anno specificati separatamente gli interessi in chirografo e quelli in privilegio, questi ultimi calcolati fino alla data di pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo [13].

La certificazione deve avere a oggetto anche i crediti tributari in contestazione, sussistendo l’obbligo per il debitore – ex art. 90, comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (che contiene un espresso rinvio al già citato art. 176 [14]) – di operare un apposito accantonamento in via provvisoria alle condizioni stabilite dal Tribunale [15]. In questa ipotesi, come già chiarito con la circolare n. 16/2018, indipendentemente dal voto favorevole o contrario espresso dall’Amministrazione finanziaria, il trattamento del debito tributario (privilegiato o chirografario) proposto in sede di concordato va applicato all’ammontare risultante dalla pronuncia che definisce il giudizio relativo al credito contestato (e non alla originaria pretesa emergente dall’atto impugnato), in quanto i crediti la cui spettanza e/o misura è oggetto di accertamento giudiziale rappresentano comunque crediti sorti anteriormente all’apertura della procedura e vanno dunque soddisfatti secondo le regole del concorso [16].

6. Il coordinamento tra gli istituti deflattivi del contenzioso e la transazione fiscale

I crediti fiscali in contestazione, in quanto discendenti da atti notificati e impugnati dinanzi ai Giudici tributari o per i quali sono ancora pendenti i termini di impugnazione, al momento di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo o (nell’accordo di ristrutturazione dei debiti) di presentazione della proposta di transazione fiscale possono essere definiti sia mediante il ricorso agli istituti deflativi del contenzioso, sia tramite la stessa proposta di transazione fiscale, sebbene i primi si fondino su presupposti diversi da quelli che caratterizzano la seconda e abbiano finalità differenti.

L’accertamento con adesione, infatti, pur prevedendo il consenso del contribuente, rimane pur sempre un procedimento di accertamento avente lo scopo di determinare le imposte dovute dal soggetto destinatario di un controllo fiscale, seppur considerando i fatti e gli argomenti rappresentati a tale fine da quest’ultimo; nella mediazione e nella conciliazione giudiziale l’Amministrazione finanziaria deve invece valutare l’opportunità di definire una controversia in accordo con il contribuente, apprezzando anche aspetti diversi da quelli che conducono alla determinazione dell’imponibile secondo la normativa vigente, quali il rischio di soccombenza nel giudizio alla luce dei motivi di difesa dispiegati dal contribuente, l’assenza di un indirizzo giurisprudenziale univoco favorevole o la presenza di un indirizzo in corso di formazione, risparmiando tempo e risorse, che possono in taluni casi risultare maggiori del vantaggio derivante dalla prosecuzione della stessa.

La transazione fiscale, invece, non attiene a nulla di tutto ciò: fonda il proprio presupposto sull’incapacità del contribuente di pagare i propri debiti tributari, indipendentemente dal fatto che si tratti, o meno, di somme pacificamente dovute e ha lo scopo di consentire al Fisco di recuperare i suoi crediti nella misura più elevata possibile, alla luce della situazione di crisi finanziaria in cui l’impresa che vi ricorre deve necessariamente trovarsi per potersene avvalere, favorendo, ove possibile, come si è già rilevato, la prosecuzione di un’attività d’impresa e salvaguardandone dipendenti e fornitori, anche nell’ottica della produzione di ulteriori redditi tassabili da parte di costoro.

Inoltre la rideterminazione dell’obbligazione tributaria attraverso l’accertamento con adesione, la mediazione o la conciliazione giudiziale ha effetto novativo, poiché viene ex novo quantificato l’importo della pretesa, mentre, come l’Agenzia delle Entrate ha anche recentemente ribadito, la rideterminazione del quantum dei crediti tributari contestati (sia nell’ambito della proposta concordataria, sia nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione) non produce effetto novativo, sicché, in caso di risoluzione o annullamento del concordato ovvero di risoluzione dell’accordo) l’obbligazione tributaria rivive nel suo originario ammontare, ferma restando l’estinzione del relativo giudizio.

Alla luce di quanto testé riferito, l’accertamento con adesione, la mediazione tributaria e la conciliazione giudiziale, da un lato, e la transazione fiscale, dall’altro lato, possono convivere e coordinarsi sia nel concordato preventivo sia nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti. A tale riguardo possono essere individuate, con riferimento all’accordo di ristrutturazione le seguenti situazioni, a ognuna delle quali corrisponde una differente disciplina:

  • la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo mediante l’adesione, la mediazione o la conciliazione nell’ambito delle trattative concernenti la transazione fiscale connessa all’accordo di ristrutturazione. In questo caso si applicano le norme che disciplinano tali istituti, la rideterminazione dell’importo dovuto ha natura novativa e il suo pagamento può essere liberamente eseguito dall’impresa debitrice senza autorizzazione alcuna da parte di terzi, ferme restando le ordinarie scadenze e l’esclusione della falcidia dell’importo dovuto;
  • la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo per effetto della sottoscrizione dell’atto di transazione fiscale da parte dell’impresa debitrice e dell’Agenzia delle Entrate (senza ricorso ai menzionati istituti deflattivi del contenzioso), concordando la debenza di un importo che tenga conto anche della situazione finanziaria dell’impresa debitrice e una dilazione di pagamento di tale ammontare più ampia di quella prevista dalle ordinarie disposizioni che regolamentano gli istituti deflattivi del contenzioso. L’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti cui è connessa la transazione fiscale non produce effetto novativo, ma consente l’estinzione dei giudizi pendenti, fermo restando che, in caso di risoluzione della transazione fiscale ai sensi del citato comma 6 dell’articolo 182-ter, il debito tributario rivive nel suo importo originario;
  • la definizione del credito contestato dal Fisco è stata perfezionata, prima dell’avvio delle trattative concernenti la presentazione della proposta di transazione fiscale, mediante un istituto deflattivo, ma l’impresa debitrice non ha provveduto all’integrale pagamento delle somme da esso discendenti. L’agenzia delle Entrate non si è espressamente pronunciata su questa fattispecie, ma è da ritenersi che essa vada ricondotta alla situazione tipica costituita dal mancato pagamento, da parte del contribuente, di un debito definito e quindi certo, ancorché derivante – in questa ipotesi – ab origine da un accertamento e non dall’omesso versamento di somme pacificamente dovute; conseguentemente esso può essere oggetto di falcidia e rinegoziazione, circa i tempi di pagamento, al pari degli altri crediti fiscali rimasti insoluti, ferma restando, da un lato, l’insorgenza delle sanzioni che si rendono dovute a causa del mancato adempimento delle obbligazioni assunte dal contribuente mediante l’accertamento con adesione, la mediazione o la conciliazione giudiziale e, dall’altro lato, l’opportuna valutazione dell’Amministrazione finanziaria circa la convenienza della proposta di transazione fiscale, in considerazione della riduzione della originaria pretesa prodotta una prima volta dall’istituto deflattivo e quella generata, una seconda volta, dalla falcidia del debito definito prevista da tale proposta.

Nel concordato preventivo il ricorso agli istituti deflattivi del contenzioso in presenza di una proposta di transazione fiscale può invece generare le seguenti situazioni:

  • la definizione del credito tributario è stata effettuata prima dell’apertura della procedura, ma le somme che ne discendono non sono state interamente versate anteriormente all’apertura della procedura. In questo caso tali somme costituiscono un credito concorsuale, che, in quanto tale, subisce le regole del concorso. Pertanto esse sono soggette alla falcidia concordataria e vengono quindi soddisfatte solo nella percentuale offerta all’erario con la proposta di concordato, con possibilità di essere pagate mediante una dilazione ben più ampia di quella consentita dalle norme che disciplinano gli istituti deflattivi, purché tale maggior dilazione sia oggetto della proposta concordataria;
  • la definizione del credito tributario ha luogo nel corso della procedura. In questo caso non viene meno, ai fini del perfezionamento dell’accertamento con adesione e della mediazione, l’obbligo – a tal fine previsto dalle norme che disciplinano detti istituti – di versare l’importo che ne deriva, ovvero la prima rata di tale importo se si opta per un pagamento rateale: conseguentemente l’utilizzo di questo istituto comporta la necessità sia dell’autorizzazione del Tribunale a eseguire anticipatamente il pagamento di debiti che, essendo relativi a presupposti impositivi insorti prima dell’apertura della procedura, hanno natura concorsuale, sia l’attestazione della funzionalità di tali pagamenti rispetto al migliore soddisfacimento dei creditori. Analoga necessità di pagamento (dell’importo dovuto ovvero della relativa prima rata) non sussiste invece con riguardo alla conciliazione giudiziale, poiché, ai fini del suo perfezionamento, non è più richiesto alcun pagamento preliminare ed è sufficiente la sottoscrizione del relativo accordo. Gli importi dovuti sulla base degli istituti di cui trattasi, con riguardo alle rate successive alla prima nell’adesione e nella mediazione e all’intero importo nella conciliazione, possono tuttavia essere versati anche sulla base di una dilazione più ampia di quella consentita dalle norme che ordinariamente disciplinano detti istituti, qualora tale maggior dilazione sia prevista dalla proposta concordataria e questa vanga approvata dai creditori con le maggioranze di legge, indipendentemente dalla sorte della transazione fiscale. Mentre l’accertamento con adesione impedisce il sorgere di un contenzioso, il perfezionamento della mediazione e della conciliazione comportano l’estinzione del giudizio precedentemente radicato. L’accertamento con adesione, la mediazione e la conciliazione producono un effetto novativo e conseguentemente il credito erariale che ne discende rimane tale anche nel caso in cui il concordato venga successivamente annullato o risolto;
  • la definizione del credito contestato dal Fisco ha luogo nel corso della procedura, senza ricorso agli istituti deflattivi del contenzioso sopra ricordati. Tale definizione può essere conseguita, infatti, anche senza l’utilizzo di detti istituti, attraverso una proposta di transazione fiscale che disciplini il trattamento di tali crediti e preveda la conseguente estinzione dei relativi giudizi per cessata materia del contendere, a patto che la proposta venga approvata dall’agenzia delle Entrate. In assenza di tale approvazione, nessuna definizione può prodursi solo in virtù dell’approvazione del concordato da parte dei creditori con le maggioranze di legge, l’unico effetto della quale, a seguito della omologazione del concordato e senza approvazione della transazione fiscale, rimane la determinazione dell’importo dovuto all’esito del contenzioso sulla base della percentuale di soddisfacimento offerta all’Amministrazione finanziaria. A differenza di quanto accade nelle precedenti ipotesi sub a) e b), non si produce alcun effetto novativo e quindi, qualora il concordato venga annullato o risolto, l’obbligazione tributaria rivive nel suo ammontare originario.

7. L’operatività della compensazione

La Corte di Cassazione ha più volte affermato che, per effetto del richiamo all’art. 56 l.f. operato dal successivo art. 169, i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il debitore ammesso al concordato preventivo i crediti che essi vantano verso lo stesso, sicché nell’ambito di tale procedura la compensazione determina “una deroga alla regola del concorso ed è ammessa pure quando i presupposti di liquidità ed esigibilità, ex art. 1243 c.c., maturino dopo la presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, purché il fatto genetico delle rispettive obbligazioni sia sempre anteriore a detta domanda[17]. Come evidenziato dai giudici di legittimità in altre occasioni, la ratio dell’art. 56 va individuata “nell’esigenza di evitare che il debitore del fallimento, che bene abbia corrisposto il credito di questo, sia poi esposto al rischio di realizzare a sua volta un proprio credito in moneta fallimentare’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 481 del 13/01/2009) e la cui unica condizione di efficacia è ritenuta ‘l’anteriorità rispetto al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10861 del 10/07/2003) e perciò con ‘eccezione alla regola di cui all’art. 1243 c.c., secondo la quale la compensazione si verifica solo in caso di coesistenza di due contrapposti debiti aventi ad oggetto somme di denaro o quantità di cose fungibili dello stesso genere che siano però ugualmente liquidi ed esigibili’ (Cass. Sez. L, Sentenza n. 4530 del 10/04/2000)[18].

L’Agenzia delle entrate aveva già in precedenza rilevato che, sulla base di tali disposizioni, l’istituto della compensazione opera anche con riguardo ai crediti vantati dall’erario nei confronti del debitore ammesso al concordato preventivo, sorti entro la data di iscrizione della relativa domanda nel registro delle imprese, invitando perciò gli Uffici a verificare, in sede di certificazione, “le istanze di rimborso dei crediti presentate dal debitore negli anni precedenti alla domanda di concordato, nonché i crediti esposti dal medesimo debitore in dichiarazione. In entrambi i casi, ai fini della quantificazione del debito fiscale complessivo dovrà ritenersi operante la compensazione delle somme chieste a rimborso o imputate a credito in dichiarazione con i debiti tributari[19].

Nell’ambito dei nuovi indirizzi forniti l’Agenzia, dopo avere confermato che la data di riferimento è quella di pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di ammissione alla procedura concordataria (in quanto “spartiacque” tra i debiti dell’impresa sorti prima dell’avvio della procedura – come tali soggetti all’effetto esdebitatorio previsto dall’art. 184 l.f. – e quelli sorti nel corso della procedura concorsuale), ha ritenuto di precisare come la compensazione sia ammessa solo a condizione di reciprocità temporale dei rapporti obbligatori, potendosi ritenere compensabili tra loro, da un lato, solo i debiti e crediti sorti entrambi prima della suddetta data e, dall’altro, solo i debiti e crediti sorti entrambi successivamente. In particolare, l’Agenzia ritiene operante la compensazione legale tra i crediti dell’erario verso il proponente e i crediti verso l’erario del proponente (esistenti alla data di pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di ammissione alla procedura) fino a concorrenza del minor importo tra i due, trovando applicazione le regole del concorso per l’ammontare residuo dei crediti dell’erario verso il debitore [20]. In altri termini, la compensazione legale regolata dal combinato disposto degli artt. 56 e 169 l.f. produce l’effetto di estinguere una parte del credito dell’erario verso il proponente (corrispondente, se inferiore, al reciproco credito vantato da quest’ultimo), la quale quindi risulta essere così soddisfatta per intero, in deroga alle regole del concorso; queste restano ovviamente applicabili al residuo ammontare del credito (o, meglio, sul credito “netto” post compensazione), il quale soggiace all’eventuale falcidia concordataria (in caso di incapienza dell’attivo) e all’effetto esdebitatorio conseguente all’omologazione della proposta.

Ciò posto, sono al riguardo prospettabili quattro diversi casi:

  1. i crediti dell’erario verso il proponente e il credito del proponente verso l’erario sono sorti entrambi anteriormente alla data di pubblicazione della domanda di concordato;
  2. i crediti dell’erario verso il proponente e il credito del proponente verso l’erario sono sorti entrambi dopo la data di pubblicazione della domanda di concordato credito;
  3. i crediti dell’erario verso il proponente sono sorti successivamente alla data di pubblicazione della domanda di concordato, mentre il credito del proponente verso l’erario è sorto prima;
  4. i crediti dell’erario verso il proponente sono sorti anteriormente alla data di pubblicazione domanda di concordato, mentre il credito del proponente verso l’erario è sorto dopo.

Sulla base degli indirizzi dell’Agenzia delle entrate, la compensazione ex lege dei crediti tributari, che determina l’estinzione del credito erariale verso il proponente “a monte” (ovverosia ante falcidia), è ammessa solo nelle prime due situazioni. La medesima compensazione non è invece ammissibile né nel caso 3), né nel caso 4), non risultando verificata la condizione di reciprocità temporale; conseguentemente, il credito dell’erario di cui al caso 4) è interamente soggetto alle regole del concorso (in quanto maturato anteriormente all’apertura della procedura), mentre quello di cui al caso 3) è trattato secondo le regole che disciplinano i crediti sorti nel corso della procedura.

Sebbene la compensazione de qua sia prevista direttamente dalla legge fallimentare, per motivi di chiarezza e tracciabilità sarebbe opportuno (secondo l’Agenzia) che il debitore ne desse formale rappresentazione nel modello F24, ovverosia attraverso la procedura ordinaria di compensazione dei crediti tributari prevista dall’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, tuttavia senza considerare il limite di settecentomila euro previsto dall’art. 34 della L. 23 dicembre 2000, n. 388 (la cui applicazione, nel contesto della procedura concordataria, rischierebbe di generare un danno per l’Erario, oltre che violare la ratio del citato art. 56).

Restano invece operative, anche con riguardo a questa particolare tipologia di compensazione, la disposizione che consente di effettuarla per importi superiori a cinquemila euro annui a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge (art. 17, comma 1, ultimo periodo, D.Lgs. n. 241/1997) e quella che richiede, per importi superiori a quindicimila euro annui, l’apposizione del visto di conformità o la sottoscrizione dei soggetti cui è attribuito il controllo contabile.

Una volta determinato il quantum da pagare agli effetti dell’art. 184 l.f., la compensazione dei crediti tributari deve ritenersi effettuabile in base alle regole stabilite dall’ordinamento tributario: le puntualizzazioni dell’Agenzia sopra riportate, infatti, sono da intendersi riferite unicamente alla compensazione legale dei crediti tributari. Del resto, una volta quantificati la parte del credito dell’Erario da soddisfare in misura integrale (mediante compensazione), la parte del credito dell’Erario da soddisfare secondo le regole concorso e, infine, l’ammontare dei crediti verso l’Erario su cui (insieme agli altri beni e diritti facenti parte del patrimonio del debitore) si possono soddisfare i crediti maturati prima dell’apertura della procedura concordataria in base alle medesime regole, nessuna norma osta all’utilizzo dei crediti tributari compensabili quale strumento di pagamento dei debiti tributari, ancorché generatisi in un periodo diverso da quello di formazione dei debiti verso l’Erario.

Si ipotizzi, a titolo esemplificativo, l’esistenza di un credito verso l’Erario per Iva pari a novantamila euro e debiti verso l’Erario per duecentomila euro maturati prima dell’apertura del concordato, nonché un ulteriore credito verso l’Erario per Iva pari a cinquantamila euro maturato nel corso della procedura. In questa situazione, i debiti verso l’Erario sono innanzitutto da compensare ex artt. 56 e 169 l.f. per novantamila centomila euro; se il debitore offre di soddisfare il residuo ammontare (pari a centodiecimila euro) nella misura del cinquanta per cento (e quindi di cinquantacinquemila euro), il credito erariale sorto dopo l’apertura del concordato può essere utilizzato in compensazione in forza delle regole previste dall’ordinamento tributario, secondo le scadenze stabilite nel piano concordatario.

Si ipotizzi altresì, sempre a titolo esemplificativo, l’esistenza di un credito verso l’Erario per Iva pari a novantamila euro e debiti verso l’Erario per cinquantamila euro maturati prima dell’apertura del concordato, nonché ulteriori debiti verso l’Erario pari a sessantamila euro maturati dopo. In questa situazione, i debiti erariali maturati ante concordato sono da compensare per intero ex artt. 56 e 169 l.f.; il residuo credito verso l’Erario per Iva, pari a quarantamila euro, può essere compensato nel modello F24 con il debito erariale sorto nel corso della procedura, verificandosi un effetto equivalente al pagamento per cassa: infatti, una volta omologato il concordato e verificatosi l’effetto esdebitatorio, i debiti verso l’erario (così come verso qualche altro creditore) sono pagati nel quantum definito nel piano concordatario, secondo le modalità ivi fissate.

In entrambe le ipotesi, la percentuale di soddisfazione dei crediti vantati dall’Erario dovrebbe tenere conto sia della parte soddisfatta secondo le regole del concorso, sia della parte soddisfatta per intero per effetto della compensazione legale, trattandosi comunque di una modalità di pagamento/soddisfacimento del credito.

Occorre però chiedersi come operi la limitazione contenuta nell’art. 31 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, che vieta la compensazione dei crediti tributari fino a concorrenza dell’importo dei debiti (di ammontare complessivamente superiore a millecinquecento euro) iscritti a ruolo per imposte erariali e relativi accessori per i quali è scaduto il termine di pagamento (trovando in caso contrario applicazione una sanzione corrispondente al minore tra il 50% dell’importo dei debiti iscritti a ruolo, per i quali è scaduto il termine di pagamento, e il 50% dell’importo compensato indebitamente) [21]. Atteso che dall’omologazione del concordato discende la novazione dell’obbligazione tributaria, è da ritenere che, anche agli effetti della norma testé citata, la scadenza per il pagamento dei debiti tributari sorti anteriormente all’apertura della procedura diventi quella stabilita nel piano.

In tal senso vanno anche i recenti indirizzi dell’Agenzia delle entrate, secondo cui la limitazione posta dalla suddetta norma trova applicazione con riguardo ai debiti verso l’Erario unicamente se sorti successivamente alla data di pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di ammissione al concordato preventivo e, ovviamente, se risultano scaduti per un ammontare superiore a millecinquecento euro.

Inoltre, la suddetta limitazione si rende operativa unicamente con riguardo alla compensazione dei crediti d’imposta sorti anch’essi successivamente alla data di pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di ammissione al concordato preventivo, atteso che per i crediti d’imposta sorti anteriormente il divieto di cui al citato art. 31 del D.L. n. 78/2010 deve considerarsi non operante per le medesime ragioni che – come dianzi riferito – rendono inoperante nell’ambito del concordato preventivo la limitazione di settecentomila euro prevista dall’art. 34 della L. n. 388/2000: infatti, la compensazione dei crediti erariali sorti prima dell’apertura del concordato preventivo è regolata dalle disposizioni dal combinato disposto degli artt. 56 e 169 l.f. 22].

Per quanto concerne, infine, gli accordi di ristrutturazione dei debiti da omologare ai sensi dell’art. 182-bis, invece, non si verifica l’effetto esdebitatorio previsto dall’art. 184 l.f. e dunque non assume rilevanza la distinzione tra crediti sorti anteriormente alla proposta e crediti sorti successivamente alla stessa. Pertanto, sussiste la possibilità di utilizzare, in pagamento del debito tributario, anche eventuali crediti futuri, stabilendo che le somme da rimborsare potranno essere utilizzate:

  • a copertura delle rate previste dal piano di ammortamento fino a concorrenza dell’importo, mantenendo invariata la durata della dilazione;
  • al pagamento in proporzione di tutte le rate del piano (o ad alcune di esse) con rimodulazione dei relativi importi, mantenendo invariata la durata della dilazione;
  • per estinguere il debito tributario esistente al momento della liquidazione del rimborso fino a sua concorrenza.

8. La durata del piano di risanamento e quella della dilazione di pagamento dei debiti tributari

Generalmente i Tribunali non ritengono ammissibili le proposte di concordato preventivo fondate su piani di risanamento che abbiano una durata superiore a cinque/sei anni, sia perché l’affidabilità delle previsioni che ne sono oggetto è tanto inferiore quanto più ampio è il periodo

cui esse si riferiscono, sia in attuazione del principio affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521, circa la necessità, ai fini della fattibilità del concordato, che il soddisfacimento dei creditori avvenga, oltre che in misura non irrisoria, anche “in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”, costituendo la celere esecuzione del concordato “causa concreta” del concordato stesso. Ciò nonostante, secondo l’Agenzia delle entrate il pagamento dei debiti fiscali può legittimamente avvenire con una dilazione più ampia della durata del piano, dipendendo tale decisione solo dal singolo creditore e quindi, relativamente ai debiti fiscali, dall’Amministrazione finanziaria; è pertanto consentita una dilazione di pagamento avente una durata superiore a quella del piano, ma tale maggior dilazione influisce sulla comparazione tra il trattamento offerto al Fisco e quello degli altri creditori, il che induce l’Agenzia a escludere, in tali casi, una dilazione superiore a dieci anni. Questo indirizzo è del tutto ragionevole, costituendo una necessaria conseguenza dell’applicazione del principio del divieto di trattamento deteriore dell’Erario espressamente sancito dall’articolo 182-ter della legge fallimentare. Esso si presta tuttavia a qualche possibile equivoco, che è meglio evitare.

Il primo equivoco riguarda la suddetta comparazione, che deve essere eseguita, non tra la dilazione di pagamento proposta al Fisco e l’arco temporale del piano, ma tra il trattamento offerto all’Agenzia delle entrate mediante la transazione fiscale e quello previsto dalla proposta concordataria per i crediti privilegiati di rango inferiore e chirografari, avendo riguardo, come la stessa Agenzia ha più volte affermato, alla percentuale di soddisfacimento dei crediti, alla dilazione di pagamento e alle garanzie da cui i crediti vengono assistiti. Pertanto la durata della dilazione proposta al Fisco costituisce solo uno dei fattori da considerare ai fini della comparazione richiesta dalla norma sopra citata, e generalmente nemmeno quello più rilevante, e, inoltre, non ha in ogni caso molto senso comparare la durata della dilazione di pagamento offerta all’Amministrazione finanziaria con quella del piano, tranne che nei casi in cui quest’ultima coincida con la dilazione di pagamento degli altri debiti: dovrebbe infatti rilevare – anche ai fini della valutazione di questo specifico fattore – il confronto con i tempi di pagamento previsti dalla proposta concordataria relativamente ai crediti privilegiati di rango inferiore e chirografari, i quali possono abbracciare un arco temporale superiore a quello del piano. Infatti, come attestano gli stessi principi di redazione dei piani di risanamento approvati dal consiglio nazionale dei dottori commercialisti, non è necessario che nell’arco temporale del piano si verifichi l’estinzione di tutti debiti, poiché il risanamento dell’esposizione debitoria può considerarsi raggiunto allorché il debito sia sostenibile e coerente con i flussi di cassa liberi al servizio del debito e con il livello di patrimonializzazione dell’impresa debitrice; il che significa che, una volta raggiunto il risanamento propriamente inteso, l’estinzione dei debiti, seppur nel rispetto del principio affermato dalla Corte di Cassazione sopra richiamato, può essere completata, in particolar modo attraverso specifici accordi con i creditori, anche negli anni successivi, utilizzando a tal fine i flussi di cassa liberi prodotti dalla gestione aziendale, individuabili sulla base di un andamento inerziale dell’attività esercitata che può essere estrapolato da quello previsto relativamente agli ultimi anni inclusi nel piano.

Il secondo equivoco da evitare è quello di attribuire al predetto indirizzo un valore assoluto, che prescinde cioè dal caso con riferimento al quale è stato enunciato, assumendo conseguentemente che il termine decennale costituisca la durata ordinaria della dilazione discendente dalla transazione fiscale. Ciò è infatti escluso dallo stesso articolo 182-ter, il quale ripugna soluzioni forfettarie e generalizzate e, al contrario, richiede un trattamento dei crediti erariali “su misura”, variabile da contribuente a contribuente e da caso a caso, in considerazione della specifica situazione finanziaria e delle previsioni di recupero dell’equilibrio economico di ogni singola impresa. Queste conclusioni valgono, a maggior ragione, se la transazione fiscale viene attuata nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare, che ha efficacia solo nei confronti dei creditori che vi aderiscono, i quali sono liberi di negoziare il trattamento che credono, fatta salva la necessità di provvedere al pagamento di quelli non aderenti nel termine previsto dalla norma testé citata.

9. La moratoria ultrannuale e il diritto di voto

Alla dilazione di pagamento del credito privilegiato, stabilita nel piano concordatario, è direttamente connessa la questione del diritto di voto spettante al titolare dello stesso. Dispone infatti l’art. 186-bis, comma 2, lett. c), l.f. che “il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’art. 160 seconda comma, una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto di voto”. Infatti, nonostante la diversa opinione di chi vi rinveniva un limite temporale inderogabile alla dilazionabilità dei crediti prelatizi [23], la Corte di Cassazione ha in più occasioni riconosciuto al riguardo che la norma testé citata non impone alcuna soglia temporale (intendendo solo escludere espressamente dal diritto di voto i creditori prelatizi per cui è previsto un pagamento con moratoria infrannuale) [24] e che, tuttavia, in caso di moratoria ultrannuale da essa discende un pregiudizio per il creditore, cui consegue il riconoscimento del diritto di voto (senza che ciò comporti una rinuncia implicita alla prelazione) ai sensi dell’art. 177, comma 3, l.f.

Orbene, secondo una certa corrente di pensiero il diritto di voto dovrebbe essere attribuito per l’integrale ammontare del credito, anziché per la differenza tra tale ammontare e il valore attuale dello stesso. Questa tesi, però, non è affatto condivisibile, perché se così fosse, sarebbe assegnato un peso eccessivo a creditori comunque destinati a essere soddisfatti per intero e ciò potrebbe generare un rischio di inquinamento delle maggioranze.

Secondo la diversa tesi sostenuta dai giudici di legittimità, considerata l’impossibilità di assimilare il pagamento integrale e immediato al pagamento integrale ma dilazionato e con corresponsione degli interessi, “è giusto affermare che, nel secondo caso, i creditori privilegiati debbono poter partecipare al voto sulla proposta di concordato nei limiti della perdita consequenziale[25], vale a dire nel limite della perdita sofferta per il ritardo, da considerare alla stregua di una quota del credito non soddisfatta. Infatti, prosegue la Corte di Cassazione, “il

pagamento integrale e immediato consente al creditore di disporre prontamente della somma all’atto dell’omologazione, e di deciderne quindi ogni eventuale utilizzo, mentre il pagamento (integrale ma) differito, per quanto compensato dagli interessi, non solo non consente l’impiego totale della somma corrispondente al titolo ma espone, altresì, il creditore a un rischio supplementare di inadempimento del debitore prolungato nel tempo”.

A favore di questa seconda opinione risulta essersi espressa l’Agenzia delle entrate, per la quale, in caso di dilazione di pagamento di oltre un anno (rispetto alla scadenza naturale) dei crediti erariali, al Fisco deve essere attribuito il diritto di voto in funzione della perdita economica sofferta per il ritardo, sebbene tali crediti vengano integralmente soddisfatti e indipendentemente dal riconoscimento degli interessi legali per l’intera durata della dilazione [26].

Un’altra questione sollevata dal citato art. 186-bis, comma 2, attiene alle condizioni cui è subordinata la possibilità di prevedere nel piano concordatario la dilazione ultrannuale dei crediti privilegiati.

In base a un primo orientamento, la norma testé citata consentirebbe il pagamento ultrannuale a condizione che i creditori prelatizi cui questo è offerto vengano ammessi al voto, essendo in questo caso il loro trattamento equiparabile a un pagamento non integrale. In base a un altro orientamento, invece, la moratoria oltre l’anno sarebbe proponibile dal debitore ai creditori prelatizi a condizione che questi vi abbiano acconsentito attraverso la stipula di un apposito patto. In questo secondo caso, l’accoglimento della proposta di transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, indipendentemente dal suo rilievo ai fini del raggiungimento delle maggioranze, risulterebbe decisivo ai fini della possibilità di soddisfare i crediti fiscali oltre un anno dalla omologazione, essendo essi assistiti da causa di prelazione ed essendo quindi soggetti alla disciplina del novellato articolo 86.

Tuttavia, gli indirizzi forniti dall’Agenzia delle Entrate depongono a favore della prima soluzione, nel senso che da essi si desume che la condizione per considerare ammessa la moratoria ultrannuale dei crediti erariali è costituta dall’attribuzione del diritto di voto da esercitarsi ai sensi del combinato disposto degli artt. 117, comma 3, e 182-ter l.f. [27]. Altrimenti detto, l’Agenzia riconosce che, anche in caso di voto contrario della stessa alla proposta concordataria contenente una moratoria ultrannuale dei crediti erariali, quest’ultima è omologabile con il raggiungimento delle maggioranze richieste dalla legge fallimentare.

Si è tuttavia dapprima rilevato che per alcuni giudici di merito [28] l’ammissibilità della moratoria ultrannuale dei crediti prelatizi richiederebbe comunque – ai sensi del citato art. 186-bis, comma

2, l.f. – il consenso espresso del creditore. È dunque evidente che, in questi casi, il debitore resta in concreto vincolato al voto favorevole dell’Agenzia delle entrate per l’omologazione della proposta concordataria contenente la falcidia dei crediti erariali.

10. La rinegoziazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti

Un ulteriore aspetto su cui l’Agenzia ha fornito specifici indirizzi riguarda il caso in cui, successivamente alla stipula di un atto di transazione fiscale nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti e alla omologazione di tale accordo, l’impresa debitrice si venga a trovare nell’impossibilità di adempiere alle obbligazioni oggetto dell’atto di transazione sottoscritto e ne proponga quindi la modifica.

In assenza di espresse disposizioni normative, le modifiche richieste, a seconda della loro rilevanza, possono rendere necessaria la stipula di un nuovo accordo transattivo (da omologare nuovamente) oppure possono essere acquisite mediante una mera integrazione dello stesso.

Se le modifiche richieste riguardano modalità e condizioni di pagamento (per la temporanea difficoltà sopravvenuta ad adempiere alle scadenze pattuite), esse possono essere introdotte mediante un semplice atto integrativo di quello precedentemente stipulato. Se la modifica consiste invece nella rideterminazione del debito con ulteriore abbattimento della pretesa tributaria o in una rimodulazione dei tempi di pagamento talmente ampia da incidere sul giudizio di sostenibilità del piano nei termini stimati dall’attestatore, la procedura disciplinata dall’art. 182-bis va ripercorsa ex novo, dovendosi procedere ad una nuova certificazione dei debiti tributari e alla stipula di un’altra transazione fiscale, oltre che di un nuovo accordo di ristrutturazione da omologare.

L’orientamento assunto in merito dall’Agenzia delle entrate risulta in linea con quello finora desumibile dalla (piuttosto scarna) giurisprudenza di merito sugli effetti derivanti dalla rinegoziazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ai sensi dell’art. 182-bis l.f. [29]. Infatti, in presenza della necessità di rinegoziare l’accordo attraverso la modifica del piano di risanamento per cause sopravvenute, l’esigenza di ripercorrere ex novo l’iter previsto dalla norma citata e di richiedere, in particolare, una nuova attestazione e una nuova omologazione è fatta dipendere dall’importanza delle criticità emerse con riguardo all’attuabilità dell’originario piano di ristrutturazione e dalla rilevanza dei correttivi da apportare in tema di modalità, tempi e misura di soddisfazione dei creditori. Se l’incidenza delle variazioni apportate è tale da far desumere in realtà l’esistenza di un nuovo piano rispetto a quello originariamente omologato, si rende necessario applicare nuovamente la procedura prevista dall’art. 182-bis per conseguirne i relativi effetti e tutele [30].

L’Agenzia non ha fornito alcuna indicazione circa la possibilità di definire transattivamente la causa avente a oggetto il reclamo dell’Amministrazione contro l’avvenuta omologazione del concordato, nonostante il rigetto della proposta di transazione fiscale e l’opposizione alla omologazione stessa da parte del Fisco. Anche se questa fattispecie non è disciplinata, è da ritenersi che tale definizione sia consentita sulla base delle regole del processo, dovendo in tal caso l’Agenzia valutare la congruità dell’offerta propostale dall’impresa debitrice per dirimere la lite, rispetto ai presumibili vantaggi derivanti dalla prosecuzione della causa; la definizione non è infatti ostacolata da alcuna disposizione di legge né dal principio della cosiddetta indisponibilità del rapporto tributario, il quale opera, nei limiti in cui opera, a livello sostanziale, mentre sul piano processuale la parte pubblica è una parte come le altre, e costituisce, anzi, corretta applicazione del principio del buon andamento della Pubblica amministrazione sancito dall’art. 97 della Costituzione.

11. L’individuazione dell’Ufficio competente

Un ulteriore aspetto su cui l’Agenzia ha fornito utili indicazioni concerne i criteri per individuare l’ufficio competente a ricevere la proposta di trattamento dei crediti tributari, che l’art. 182-ter richiede di stabilire sulla base dell’ultimo domicilio fiscale del debitore, senza però chiarire il momento al quale occorre a tal fine fare riferimento.

Anche su questa tematica (non affrontata nella circolare n. 16/2018) l’Agenzia ha preso posizione, rilevando che il domicilio fiscale di riferimento è quello sussistente alla data di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di ammissione alla procedura di concordato preventivo, giacché – come dianzi riferito – è da quel momento che si producono gli effetti generati dalla presentazione di tale ricorso; ciò anche in caso di presentazione della domanda “con riserva” di cui all’art. 161, comma 6, l.f..

Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti la data di riferimento, rilevante per l’individuazione dell’ufficio competente, è invece quella di presentazione della stessa proposta transattiva, la quale deve essere presentata all’ufficio competente in base al domicilio fiscale del proponente in quel momento, tenendo presente che, ai sensi dell’art. 58, comma 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto (ovvero sono opponibili) a decorrere dal sessantesimo giorno successivo a quello in ci si sono verificate.

Queste regole trovano però una deroga in presenza di un debitore che, ai sensi dell’art. 27 del D.L. 28 novembre 2008, n. 185, si qualifica come “grande contribuente”, avendo conseguito, sulla base dell’ultima dichiarazione presentata (considerando anche quelle “tardive”) un volume d’affari o ricavi di ammontare superiore a cento milioni di euro. Infatti, con riguardo a questo tipo di contribuenti la gestione del procedimento compete alla Direzione Regionale.

[1] Sul punto si veda G. Andreani, A. Tubelli, “La posizione dell’Agenzia sulla ‘transazione fiscale’: pregi e difetti”, in il fisco n. 34/2018, pag. 3241.

[2] Cfr. L. Stanghellini, “Il concordato con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, 2014, pag. 1240; A. Rossi, “Le proposte ‘indecenti’ nel concordato preventivo”, in Giurisprudenza commerciale n. 2/2015, I, pag. 334; A. Guiotto, “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 8-9/2019, pag. 1099.

[3] Cfr. ex multis A. Guiotto, “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 8-9/2019, pagg. 110-114; C. Trentini, I concordati preventivi, 2014, pag. 168; S. Ambrosini, “Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in Tratt. Cottino, 2008, pag. 57.

[4] Sulla base della definizione enunciata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, rientrano tipicamente nella definizione di “finanza esterna” gli apporti finanziari di soggetti terzi che risultino neutrali rispetto allo stato patrimoniale del debitore, se ed in quanto non comportano né un incremento dell’attivo patrimoniale tramite il quale soddisfare i crediti privilegiati, né un aggravio del passivo patrimoniale stante l’assenza del vincolo di restituzione (si tratta, in sostanza, di attribuzioni a fondo perduto o “liberalità”). Per i giudici di legittimità, infatti, “l’intangibilità dell’ordine delle cause di prelazione trova il suo limite nel patrimonio del debitore, e non vieta al terzo di condizionare il suo apporto finanziario alla soddisfazione preferenziale di crediti posposti”.

[5] Così testualmente Trib. Milano, decreto 15 dicembre 2016. In senso analogo si vedano anche App. Venezia, 12 maggio 2016, e App. Torino, 16 aprile 2019. In quest’ultima pronuncia è stato osservato che addossare al creditore privilegiato il rischio conseguente alla continuazione dell’attività senza attribuzione delle potenzialità da essa derivanti comporterebbe l’imposizione di un patto leonino.

[6] Il concetto di “nuova finanza” risulta infatti più ampio di quello di “finanza esterna”, comprendendo le nuove risorse finanziarie previste nel piano per sostenere la prosecuzione dell’attività e che non rientrano in questa seconda nozione, quali per esempio i prestiti erogati da terzi.

[7] Cfr. Trib. Milano, 5 dicembre 2018; Trib. Massa, 27 novembre 2018; Trib. Milano, 3 novembre 2016; Trib. Prato, 7 ottobre 2015; Trib. Treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; Trib. Rovereto, 13 ottobre 2014; Trib. Torino, 7 novembre 2013; Trib. Saluzzo, 13 maggio 2013. In dottrina si vedano ex multis Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili – Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Documento di ricerca “Il trattamento dei crediti tributari nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione” (di P. Rossi), 20 febbraio 2019, pagg. 10 e 11; E. Stasi, “Transazione fiscale nelle procedure concorsuali”, in il fallimentarista, 9 maggio 2019; M. Terenghi, “Finanza esterna, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 3/2019, pagg. 387 e 388; S. Guarino, cit., pagg. 2093 – 2095; G. D’Attorre, “Ricchezza del risanamento imprenditoriale e sua destinazione”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 10/2017, pag. 1015 e ss.

[8] Rileva il Tribunale di Milano (6 dicembre 2018) che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica, la quale a propria volta è stata resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, sono anch’essi classificabili come “finanza esterna”, per il semplice fatto che non esisterebbero in assenza di tale apporto.

[9] Cfr. Trib. Milano, 6 dicembre 2018.

[10] Stante il rinvio al comma 1 presente nel comma 5 dell’art. 182-ter, tali principi devono essere rispettati anche quando la proposta è connessa a un accordo di ristrutturazione dei debiti, fermo restando che il confronto va operato solo con il trattamento offerto ai creditori aderenti all’accordo.

[11] Quando la proposta è connessa a un accordo di ristrutturazione dei debiti, la valutazione dell’Agenzia chiaramente precede quella che il Tribunale deve del pari operare ai sensi del comma 5 dell’art. 182-ter. Rispetto alla normativa vigente, l’art. 48, comma 5, del Codice della crisi d’impresa (D.Lgs. n. 14/2019) stabilisce che l’omologazione dell’accordo può intervenire anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria quando l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento delle percentuali del sessanta o del trenta per cento, a seconda del tipo di accordo, e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. Cfr. A. Zorzi, “Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali 7-8/2019, pag. 1003.

[12] Il comma 1-bis, aggiunto all’art. 25 del D.P.R. n. 602/1973, disciplina i termini di decadenza per la notifica della cartella di pagamento per i crediti non ancora iscritti a ruolo ed anteriori alla data di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’ammissione alla procedura concordataria o alla data di presentazione della proposta di transazione fiscale, qualora l’ammissione al concordato venga revocata o non approvata oppure in caso di risoluzione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione successivamente alla loro omologazione.

[13] Gli interessi maturati dalla data di scadenza del versamento sino al secondo anno antecedente la data della pubblicazione dell’istanza e quelli maturati nell’anno precedente e nell’anno in corso a tale data sono, rispettivamente, in chirografo e in privilegio, ancorché vadano computati entrambi nella misura prevista dall’art. 20 del D.P.R. n. 602/1973. Gli interessi maturati dall’anno successivo sono in rango privilegiato e vanno computati al saggio legale.

[14] Tale norma prevede che, nell’ambito del concordato preventivo, il giudice delegato può ammettere provvisoriamente in tutto o in parte i crediti contestati ai soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze, senza che ciò pregiudichi le pronunzie definitive sulla sussistenza dei crediti stessi.

[15] Cfr. Cassazione, ordinanza 13 giugno 2018, n. 15414.

[16] Il debitore può prevedere un’apposita classe per i crediti in contestazione e il relativo trattamento. Cfr. Cassazione, sentenza 11 gennaio 2018, n. 5689.

[17] Così testualmente Cass. 30 gennaio 2015, n. 825. Cfr. anche Cass., 22 novembre 2015, n. 24046, 7 maggio 2009, n. 10548, 13 gennaio 2009, n. 481 e 23 luglio 1994, n. 6870, nonché App. Milano, 23 febbraio 2016. Sul fatto che la disciplina della compensazione costituisca deroga al principio della regolazione concorsuale si vedano in dottrina M. Fabiani, G. La Croce, “L’istituto della compensazione nel concordato preventivo: una operatività a 360 gradi”, in il fallimento e le altre procedure concorsuali n. 5/2015, pagg. 634-636, secondo cui la ratio dell’art. 56 l.f. sta nella volontà del legislatore di far partecipare al concorso unicamente il credito “netto” verso il soggetto fallito.

[18] Così testualmente Cass. 15 luglio 2016, n. 14615, che rileva come, con riguardo ai debiti verso l’Erario, occorra fare riferimento alla data in cui si è verificato il fatto che ha determinato il debito, e non a quella in cui il debito è stato concretamente accertato. Su quest’ultimo punto si veda altresì Cass., 22 gennaio 1998, n. 559.

[19] Così testualmente circolare 23 luglio 2018, n. 16/E.

[20] L’Ufficio, in accordo con il debitore, è libero di derogare al principio sancito dal secondo comma dell’art. 1139 c.c., che, in presenza di una pluralità di debiti scaduti, indica i criteri per individuare i debiti cui imputare il pagamento mediante compensazione. Le somme dovute a titolo di aggio e spese di procedura sono di spettanza dell’Agente della riscossione e sono perciò da tenere distinte rispetto ai crediti erariali.

[21] Nella relazione illustrativa al D.L. n. 78 del 2010 si precisa che lo scopo di tale divieto è quello di contrastare le compensazioni immediate (e dunque il mancato versamento delle imposte dovute) da parte di chi, pur disponendo di un credito erariale, è al contempo debitore di somme iscritte a ruolo risalenti nel tempo, costringendo gli organi della riscossione a defatiganti attività esecutive, spesso vanificate da deliberate spoliazioni preventive del patrimonio del debitore. Per la compensazione del debito erariale iscritto a ruolo occorre utilizzare il mod. “F24 Accise” (previsto dal D.M. 10 febbraio 2011), indicando il codice tributo “RUOL”.

[22] Sono del pari da considerarsi non operative, in quanto superate dall’art. 56, la limitazione alla compensazione prevista dall’art. 28-ter del D.P.R. n. 602/1973 in sede di erogazione di un rimborso d’imposta, nonché le previsioni dei successivi artt. 28-quater e 28 quinquies, disciplinanti la compensazione dei debiti tributari con i crediti vantati dall’impresa debitrice nei confronti delle amministrazioni pubbliche per somministrazioni, forniture e appalti.

[23] Così Trib. Monza, 26 settembre 2014; Trib. Marsala, 5 febbraio 2014; Trib. Padova, 4 dicembre 2013 e 30 maggio 2013.

[24] Così Cass., 26 settembre 2014, n. 20388; 9 maggio 2014, n. 10112; 2 settembre 2015, n. 17461; 23 febbraio 2016, n. 3482.

[25] Così Cass., 31 ottobre 2016, n. 22045. Nello stesso senso si vedano le sentenze 3 luglio 2019, n. 17834, e 9 maggio 2014, n. 10112, nonché le quattro sentenze citate nella nota precedente.

[26] Questo indirizzo, del resto, è quello che il legislatore ha dimostrato di condividere nella formulazione dell’art. 86 del Codice della crisi d’impresa, a norma del quale, se il piano di concordato prevede una moratoria fino a due anni dall’omologazione per il pagamento dei creditori privilegiati, questi hanno diritto al voto per la differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti dal piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un tasso di sconto pari alla metà di quello previsto dall’articolo 5 del Dlgs 231 del 9 ottobre 2002.

[27] Nella formulazione dell’art. 86 del Codice della crisi d’impresa, invece, il legislatore sembrerebbe avere seguito il secondo orientamento, prevedendo l’attribuzione del diritto di voto ai crediti prelatizi per cui è prevista la moratoria sino a due anni. Infatti, una tale disposizione non avrebbe senso se la durata della moratoria fosse ulteriormente derogabile semplicemente attraverso l’attribuzione del diritto di voto, visto che esso competerebbe in ogni caso.

[28] In questo senso cfr. Trib. Roma, “Linee guida in ordine a talune questioni controverse della procedura di concordato preventivo”, maggio 2016. Sulla questione in generale si veda M. Arato, “Questioni controverse nel concordato preventivo con continuità aziendale: il conferimento e l’affitto d’azienda, il pagamento ultrannuale dei creditori privilegiati, l’uscita dalla procedura”, in www.ilcaso.it, 9.8.2016.

[29] Cfr. Trib. Terni, 4 luglio 2011; Trib. Milano, 17 giugno 2009 e 30 novembre 2010.

[30] Sul carattere “essenziale” o meno delle modifiche apportate è incentrato anche l’art. 58 del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice dalla crisi di impresa) che disciplina espressamente le ipotesi di “rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano”, stabilendo che, se prima dell’omologazione intervengono modifiche sostanziali del piano, occorre richiedere il rinnovo dell’attestazione al professionista e delle manifestazioni di consenso ai creditori aderenti; qualora le modifiche sostanziali del piano si rendano invece necessarie dopo l’omologazione, occorre procedere ad una nuova pubblicazione dello stesso nel registro delle imprese.