Giulio Andreani
Grazie al D. Lgs. 27 settembre 2024, n. 136, anche nelle composizioni negoziate della crisi avviate con istanza presentata dallo scorso 28 settembre le imprese debitrici possono concludere un accordo con le agenzie fiscali, avente a oggetto la riduzione e la dilazione dei debiti relativi ai tributi e ai relativi accessori. Non è tuttavia consentito il cram down. Sono necessarie un’attestazione del professionista indipendente e una relazione del revisore legale sulla completezza e veridicità dei dati aziendali. Sebbene la composizione negoziata non abbia natura giurisdizionale, l’efficacia dell’accordo è condizionata all’autorizzazione del giudice. L’accordo può riguardare qualsiasi tributo? Qual è procedimento che deve essere adottato? Professionista indipendente e revisore possono coincidere? Qual è la regolarità che il giudice deve verificare per autorizzare l’accordo? In quali casi l’accordo può essere risolto? L’articolo cerca di rispondere a queste domande.
Sommario:
1. Premessa
2. Il campo di applicazione dell’accordo e la falcidia dell’iva
3. Il procedimento e gli effetti
4. La sottoscrizione e la risoluzione dell’accordo
5. La disposizione transitoria
1 . Premessa
Con il D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (c.d. “terzo decreto correttivo” o “correttivo ter”) è stato aggiunto all’art. 23 del Codice della crisi il comma 2 bis, grazie al quale anche nel corso della composizione negoziata della crisi può essere concluso un accordo transattivo tra il debitore e le agenzie fiscali (Entrate, Dogane e Riscossione). Viene colmata in questo modo la lacuna da più parti rilevata sin dall’introduzione di tale percorso nel diritto della crisi d’impresa, i cui effetti sono stati esaminati in un articolo pubblicato da questa Rivista il 15 gennaio 2024 (G. Andreani, “Transazione fiscale, indisponibilità del credito tributario e composizione negoziata della crisi”), al quale si rinvia ai fini della illustrazione della disciplina applicabile alle composizioni negoziate avviate con istanza di nomina dell’esperto presentata anteriormente alla data di entrata in vigore del suddetto decreto, per le quali le disposizioni introdotte dal citato comma 2 bis non trovano applicazione.
2 . Il campo di applicazione dell’accordo e la falcidia dell’iva
L’accordo transattivo ha a oggetto il pagamento parziale e/o dilazionato di tutti i debiti tributari, inclusi quelli relativi ai tributi e non solo gli importi dovuti a titolo di sanzioni e interessi, che – come si è visto – anteriormente alle modifiche apportate dal decreto correttivo erano i soli di cui l’art. 25 bis, commi da 1 a 3, del Codice della crisi consentiva la riduzione. L’accordo non può invece riguardare i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, poiché lo prevede espressamente il suddetto comma 2 bis.
Sin dall’approvazione del correttivo in prima lettura da parte del Consiglio dei Ministri, questa disposizione ha generato un vivace, ancorché ingiustificato, dibattito sull’ampiezza di tale esclusione e in particolare sulla possibilità di falcidiare anche l’iva, sul presupposto che costituisca una risorsa propria dell’Unione europea.
In base alla decisione UE- Euratom 2020/2053 del Consiglio dell’Unione europea del 14 dicembre 2020 sono da considerare risorse proprie dell’Unione le entrate provenienti:
– dalle risorse proprie tradizionali costituite da prelievi, premi, importi supplementari compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della tariffa doganale comune e altri dazi fissati da parte delle istituzioni dell’Unione sugli scambi con paesi terzi, dazi doganali sui prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio,
nonché contributi e altri dazi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero;
– dall’applicazione di un’aliquota di prelievo dello 0,30 per cento per tutti gli Stati membri al gettito iva totale riscosso per tutte le forniture imponibili diviso per l’aliquota iva media ponderata calcolata per l’anno civile pertinente (la base imponibile da prendere in considerazione non può superare per ciascun Stato il 50% del reddito nazionale lordo);
– dall’applicazione di un’aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascun Stato membro. L’aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 euro per chilogrammo, salvo eventuale riduzione forfettaria;
– dall’applicazione di un’aliquota uniforme di prelievo, da determinare nel quadro della procedura di bilancio, tenuto conto di tutte le altre entrate, alla somma del reddito nazionale lordo di tutti gli altri Stati membri.
Si deve pertanto escludere che tra le risorse proprie dell’Unione europea rientri l’iva, che deve essere conseguentemente considerata falcidiabile al pari delle altre imposte.
Tuttavia, poiché la norma esclude espressamente dal suddetto accordo “i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”, come si è ricordato, questa affermazione è stata messa in discussione da alcuni commentatori; tant’è che le commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati, con i pareri rilasciati sul decreto correttivo rispettivamente il 6 e il 7 agosto 2024, avevano ritenuto di dover suggerire al Governo di valutare l’inclusione dell’iva tra i tributi che possono essere oggetto del suddetto accordo, secondo il principio di non disparità di trattamento già riconosciuto dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. 29 novembre 2019, n. 245), prevedendo eventualmente la redazione di “un’attestazione, sulla base dell’accertamento svolto da un esperto indipendente, che il debito IVA non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento, secondo quanto indicato anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza Corte di Giustizia 7 aprile 2016 – Causa C-546/14”. L’obiettivo indicato dalle commissioni parlamentari, costituito dall’applicazione dell’accordo anche ai debiti relativi all’iva, era da condividere, ma è errato il presupposto del suggerimento delle due commissioni parlamentari, e cioè che il novellato art. 23, comma 2 bis escludesse l’iva dal campo di applicazione dell’accordo. Che si tratti di un presupposto errato è attestato dai lavori preparatori del provvedimento, nel corso dei quali era stata, sì, richiesta dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli l’esclusione dall’accordo, oltre che delle risorse proprie tradizionali dell’Unione europea, anche dell’iva, ma tale previsione non ha poi avuto seguito e nel testo del decreto non compare più la parola “iva” inserita in una bozza di tale provvedimento a seguito di tale richiesta. Lo attesta, inoltre, il fatto che in base alla decisione del Consiglio dell’Unione europea sopra richiamata questo tributo non rientra tra le risorse proprie dell’Unione europea. È vero – come si è esposto – che sono considerate tali le entrate provenienti dall’applicazione di una percentuale minima al gettito iva calcolato secondo specifici criteri; tuttavia, ciò non significa – come il Tribunale di Milano ha chiarito sin dal 2008
– che questa imposta costituisca di per sé una risorsa propria dell’Unione e, a tutto concedere, rappresentando essa solo la base di commisurazione del prelievo destinato a finanziare l’Unione europea, e può, semmai, essere considerata tale solo nella minima parte corrispondente alla suddetta percentuale dello 0,30 per cento (la risoluzione 29 marzo 2007 adottata dal Parlamento Europeo identificava l’iva incassata da ciascuno Stato membro, appunto, come parametro di contribuzione, ovverosia quale mera “base matematica per il calcolo dei contributi nazionali”).
Il problema dunque non sussisteva, ma la circostanza che le commissioni parlamentari (non un qualsiasi commentatore) avessero suggerito una modifica del citato comma 2 bis dell’art. 23, allo scopo di consentire che anche l’iva possa essere falcidiata, ha rischiato di generare (e di confermare) interpretazioni errate.
Tale suggerimento, infatti, avrebbe potuto indurre a pensare che, poiché tale modifica è stata ritenuta necessaria, ve ne fosse bisogno; con la conseguenza che, in assenza dell’introduzione di alcuna modifica, l’iva avrebbe potuto essere considerata non falcidiabile nella composizione negoziata. Ciò è tanto vero che, a seguito del suddetto suggerimento delle Commissioni Giustizia, in una delle ultime
bozze della relazione illustrativa del correttivo si leggeva quanto segue: “Sulla possibilità di riduzione dell’iva tramite l’incarico conferito a un esperto indipendente si ritiene che la nomina di un altro professionista renderebbe costosa ed eccessivamente complessa l’intera negoziazione. L’esclusione dell’iva nella composizione negoziata inoltre deriva dal fatto che l’imprenditore che vi accede non sempre e necessariamente si trova in uno stato di insolvenza (non pare quindi applicabile l’interpretazione data alla richiamata sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 aprile 2016, C-546%14).”.
Le considerazioni contenute in tale bozza di relazione illustrativa erano da ritenersi ancor più fuori luogo del suggerimento che le aveva generate, per i seguenti motivi:
i) innanzitutto, perché la norma, indipendentemente da quanto affermato nella relazione, non consente di affermare l’esclusione dell’iva dal campo dei tributi che possono essere oggetto dell’accordo di cui trattasi, da cui sono escluse sole le risorse proprie dell’Unione Europea, atteso il disposto della già citata UE- Euratom 2020/2053 del Consiglio dell’Unione europea del 14 dicembre 2020 sopra esposto, in base al quale, l’iva costituisce risorsa propria dell’Unione solo per lo 0,30% del gettito;
ii) in secondo luogo, perché ciò che avrebbe dovuto attestare il professionista indipendente, di cui le due Commissioni parlamentari avevano suggerito la nomina, già rientra in ciò che il professionista indipendente indicato dal comma 2 bis dell’art. 23 deve attestare con riguardo alla generalità dei crediti dell’Amministrazione finanziaria: la convenienza dell’accordo per le agenzie fiscali rispetto alla liquidazione giudiziale. È infatti evidente che, se tale convenienza sussiste significa che il debito IVA non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di liquidazione giudiziale, perché in caso contrario l’accordo non sarebbe conveniente;
iii) inoltre, perché è ancor più evidente che, per quanto onerosa potesse essere la redazione di un’ulteriore attestazione, l’onere rappresentato dal suo costo sarebbe sempre necessariamente minore del vantaggio che il debitore trae dalla riduzione dell’iva consentita dall’accordo (essendo essa necessariamente un multiplo di tale costo);
iv) infine, perché, sebbene sia vero che l’imprenditore che accede alla composizione negoziata non sempre è insolvente, nel qual caso la falcidia dell’iva potrebbe non essere indispensabile ai fini del risanamento aziendale, non vi è dubbio che può anche esserlo e in questa ipotesi la falcidia può certamente rivelarsi utile per riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa insolvente. Tuttavia, l’iva non può costituire risorsa propria dell’Unione a seconda della gravità della situazione del debitore. Ne deriverebbe un doppio regime: uno da applicare in caso di insolvenza e l’altro in assenza di insolvenza, che – oltre a essere illogico – non è previsto da alcuna norma. Poiché il cram down è escluso, saranno le agenzie fiscali a verificare di volta in volta qual è lo stralcio necessario per consentire il risanamento aziendale, a seconda della gravità dello stato di crisi del debitore;
v) infine, non è dato comprendere per quale ragione, quando l’imprenditore non versa in uno stato di insolvenza, non potrebbe falcidiare l’iva nonostante possa pacificamente falcidiare il debito originato dall’omesso pagamento di ritenute operate e non versate; si tratta, infatti, di inadempimenti la cui natura sul piano della condotta del debitore, che nella sostanza trattiene somme non sue (o non
integralmente non sue nel caso dell’iva, il che rende ancor più evidente la contraddizione), non differisce.
Se il legislatore avesse voluto escludere la possibilità di concordare la falcidia dell’iva nella composizione negoziata, avrebbe potuto – e dovuto – stabilirlo con poche semplici parole, ma non lo ha fatto. Anzi, come si è già rilevato, nel corso dei lavori, per quel che ciò può rilevare sul piano interpretativo in assenza di documenti pubblici, la parola “iva” era stata inclusa nella norma per escluderne la possibilità di riduzione mediante l’accordo, ma poi è stata cancellata. Ciò posto, rinvenire la suddetta infalcidiabilità nella disposizione che vieta la riduzione dei debiti relativi alle risorse proprie dell’Unione Europea significa far dire al legislatore, non solo ciò che non ha detto, ma addirittura ciò che è evidente che non ha voluto dire, considerato tale eventualità, pur essendo stata presa in considerazione, a seguito di specifica richiesta di un’agenzia fiscale, è stata esclusa.
Può essere utile ricordare al riguardo che l’art. 182 ter della legge fallimentare, nella sua versione originaria, escludeva la possibilità di soddisfare solo parzialmente – mediante la transazione fiscale –
i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea e già allora era stata molto dibattuta l’appartenenza dell’iva alla categoria dei “tributi costituenti risorse proprie dell’Unione” [1] ; tant’è che per disporne l’infalcidiabilità, che evidentemente la predetta previsione non consentiva, il comma
1 dell’art. 182 ter venne modificato con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185, prevedendo che con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta potesse “prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”. Con il successivo D.L. 30 maggio 2010, n. 78 il medesimo divieto fu esteso alle ritenute alla fonte operate e non versate.
L’esclusione introdotta da queste norme riguardava quindi non tutti i debiti discendenti dal mancato versamento dei tributi, ma solo quelli originati dalla percezione e dall’omesso pagamento, da parte del debitore, di somme che da altri soggetti gli erano state versate o che a carico di altri soggetti questi aveva prelevato, affinché fossero dallo stesso riversate all’Erario (senza alcuna detrazione nel caso
delle ritenute o previa detrazione dell’iva assolta sugli acquisti di beni e servizi relativamente a questo secondo tributo). Il presupposto dell’esclusione della falcidia del debito inerente all’’iva risiedeva dunque, al pari di quella inerente alle ritenute, non nella sua asserita appartenenza alle risorse proprie dell’Unione, bensì nel fatto che il mancato versamento di questo tributo è diverso da quello relativo alle altre imposte, poiché ha a oggetto somme che il contribuente non versa nonostante le abbia ricevute da terzi – o le abbia trattenuto a carico di terzi – proprio allo specifico scopo di versarle all’Erario, svolgendo sostanzialmente il ruolo di “esattore” (non a caso tali omessi versamenti costituiscono reato, al di sopra di certe soglie quantitative a differenza di quelli relativi ad altri tributi ove regolarmente dichiarati). Successivamente, con la sentenza della Corte di Giustizia UE 7 aprile 2016, causa C- 546/14, è stato chiarito che la liberazione del debitore dal pagamento di un tributo rientrante tra le risorse proprie dell’Unione Europea, generata dalla conclusione di una procedura concorsuale in cui è appurata la sua irrecuperabilità, non integra una rinuncia indiscriminata alla sua riscossione (che è invece vietata). Infatti, lo Stato, nel ,subire l’esdebitazione derivante da detta procedura, non rinuncia ad alcunché né tantomeno appoggia un piano di risanamento sotto il profilo finanziario, ma soggiace alla stessa sorte cui soggiacciono tutti gli altri creditori nel ricevere un grado di soddisfazione comunque superiore a quello ottenibile rispetto all’ipotesi alternativa della mera liquidazione dell’impresa debitrice, in ragione dell’acclarato stato di insolvenza in cui essa versa. Per dirla con le parole utilizzate dalla Corte costituzionale (sentenza 29 novembre 2019, n. 245, concernente la falcidiabilità dell’IVA nella procedura di sovraindebitamento), in base alle norme che regolano la transazione fiscale (nonché in base alle norme in tema di crisi da sovraindebitamento) “la pretesa alla soddisfazione integrale del credito munito di prelazione, anche di natura tributaria, può recedere sull’altare della minor convenienza della alternativa liquidatoria del relativo patrimonio di riferimento ….
Trasferendo le precedenti argomentazioni allo specifico settore delle pretese tributarie, non può non rimarcarsi, inoltre, che, in questo ambito, la possibilità di operare la falcidia, compensata dalla maggiore soddisfazione garantita rispetto alla alternativa liquidatoria, costituisce diretta espressione dei canoni di economicità ed efficienza ai quali deve conformarsi, ai sensi dell’art. 97 Cost., l’azione di esazione della PA. La possibilità di prospettare un pagamento anche parziale dell’obbligazione tributaria, pur se assistita da prelazione, a fronte della grave situazione debitoria del proponente, non adeguatamente supportata da un patrimonio tale da assicurare l’effettività della riscossione anche coattiva della relativa pretesa, garantisce il male minore, sia per il privato debitore, sia per l’amministrazione finanziaria”. In altri termini, sulla base della normativa in vigore dal 1° gennaio 2017 la falcidiabilità deve ritenersi consentita, nelle procedure concorsuali con finalità esdebitatorie, in via generale sia per i tributi di esclusiva rilevanza interna, sia per i tributi costituenti risorse dell’Unione Europea. Infine, com’è noto, con la Legge di bilancio 2017, che modificò ulteriormente l’art. 182-ter della legge fallimentare, venne poi esclusa qualsiasi limitazione alla falcidia dei tributi oggetto della transazione fiscale, senza distinzione alcuna.
Anche alla luce di tale evoluzione della legislazione nel tempo, ciò che rileva ai fini di cui trattasi è che: i) da un lato non sussiste alcun ostacolo, né costituzionale né unionale, a prevedere la falcidia dell’iva nel contesto degli istituti che disciplinano le crisi aziendali; ii) dall’altro lato, il legislatore
ben può escludere tale falcidia, come nell’ambito della composizione negoziata l’ha esclusa relativamente ai debiti contributivi. Tuttavia, se per ragioni di opportunità intende farlo, deve prevederlo espressamente con un’apposita disposizione; infatti, non rientrando l’iva tra le risorse proprie dell’Unione europea, il divieto di riduzione di questo tributo non può discendere da quello eventualmente stabilito relativamente a dette risorse.
Fortunatamente, il testo definitivo della relazione illustrativa del Correttivo-ter ha opportunamente risolto la querelle, rappresentando che: 1) “l’esclusione inserita nella norma riguarda solo i tributi costituenti risorse dell’Unione europea e dunque non riguarda l’IVA”; 2) pertanto il dettato normativo “consente il raggiungimento di un accordo anche per la decurtazione o il pagamento dilazionato di tale imposta”.
Del resto, i debiti tributari delle imprese in crisi derivano generalmente dall’omesso ,versamento delle ritenute e dell’iva: pertanto, se fosse stata esclusa la possibilità di ridurre anche il debito inerente a questa imposta, il problema che l’introduzione dell’accordo sui debiti tributari nella composizione negoziata si prefiggeva di risolvere sarebbe stato risolto solo a metà.
Rimangono invece non falcidiabili, e non può neppure esserne dilazionato il pagamento (se non nei termini ordinari), i debiti verso gli enti previdenziali e assicurativi, i quali hanno mostrato ben poca disponibilità verso l’accordo di cui trattasi. Si tratta, tuttavia, di un’esclusione priva di giustificazione, poiché non si comprende per quale motivo i tributi (il cui pagamento è dovuto in base a uno dei principi costituzionali di maggior rango) possono essere falcidiati e i contributi previdenziali (ferma restando la loro assoluta utilità e tenuto conto dal grado di privilegio da cui sono assistiti) non potrebbero esserlo; così come non si comprende per quale motivo i contributi potrebbero essere falcidiati nell’ambito di altri istituti, e in alcuni di essi anche forzosamente, mentre non potrebbero esserlo in alcun modo, neppure escludendo il cram down, nella composizione negoziata. A questa
ingiustificata disomogeneità di trattamento sarebbe quindi opportuno porre rimedio.
Non possono essere inoltre oggetto dell’accordo i crediti relativi ai tributi di cui sono titolari gli enti pubblici territoriali (comuni, province e regioni). La loro esclusione non deriva però dalla volontà del legislatore di escluderne la falcidiabilità, bensì dalla mancanza del tempo necessario per completare i necessari confronti con le parti interessate entro il termine di definitiva approvazione del decreto correttivo, che doveva essere necessariamente approvato entro il 13 settembre 2024, pena la decadenza della delega legislativa. L’introduzione della possibilità di falcidiare nella composizione negoziata i tributi di cui sono titolari comuni, province e regioni è peraltro espressamente stabilita da uno dei principi direttivi previsti dall’art. 9, comma 1, lett. a), della Legge n. 111/2023 (legge delega per la revisione del sistema tributario). Si tratta quindi di una misura che potrà essere introdotta mediante il decreto delegato sulla fiscalità della crisi attuativo dei predetti principi. Tuttavia, tale delega riguarda solo la transazione dei tributi locali nella composizione negoziata e non anche negli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi (quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti, il PRO, ecc.), il che rende necessari ulteriori provvedimenti, per evitare, relativamente alle medesime imposte, trattamenti differenziati privi di giustificazione. Per colmare la suddetta lacuna quanto meno nella composizione negoziata mediante il decreto correttivo, le commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati hanno suggerito al Governo di estendere il campo di applicazione di tale accordo anche ai tributi locali, ma detta inclusione non ha avuto luogo, anche in considerazione del fatto che il decreto correttivo non è attuativo della legge delega relativa alla riforma fiscale.
3 . Il procedimento e gli effetti
Affinché le agenzie fiscali possano pronunciarsi sulla proposta di accordo formulata loro dal debitore in base a informazioni affidabili e provenienti da soggetti terzi, valutando quando l’accordo è conveniente per l’Erario rispetto alla liquidazione giudiziale, è previsto che sia predisposta da un professionista indipendente una relazione che ne attesti la convenienza, la quale dovrà essere allegata alla proposta unitamente a una relazione sulla completezza e veridicità dei dati aziendali redatta
dal revisore legale del soggetto proponente, se esistente, ovvero, in caso contrario, da un revisore legale a tal fine designato. Tali elaborati hanno lo scopo di fornire oggettivi elementi di giudizio alle agenzie fiscali, di cui queste possano avvalersi per esprimersi sugli accordi relativamente a tutti i
tributi e non solo con riguardo all’iva; questo tributo, infatti, per i motivi già esposti, non richiede valutazioni e arbitraggi diversi da quelli riguardanti la generalità delle imposte (tant’è che l’obbligo
dell’attestazione era stato previsto ancor prima che venissero escluse dall’accordo le risorse proprie dell’Unione europea).
Vi è da chiedersi se sia consentito affidare a un unico professionista, munito al tempo stesso dei requisiti di cui della qualifica di “professionista indipendente” di cui all’ dell’art. 2, lett. o), del Codice della crisi e di revisore legale, l’incarico di elaborare sia l’attestazione della convenienza dell’accordo sia la relazione sulla completezza e veridicità dei dati aziendali. È da escludere tale possibilità nel caso in cui il professionista incaricato sia il revisore legale della società debitrice, perché in questo caso difetterebbe – in capo a tale soggetto – il requisito dell’indipendenza richiesto dalla norma ai fini del rilascio dell’attestazione, atteso il disposto dell’art. 2, lett. o), n. 3, del Codice della crisi, ai sensi del quale il professionista indipendente non deve aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stato membro degli organi di amministrazione o controllo dell’impresa. A diverse conclusioni si può invece pervenire ove l’impresa non sia dotata di un revisore legale e provveda quindi a incaricare un revisore esterno iscritto nell’apposito registro, il quale, non avendo svolto alcuna attività per il debitore nei cinque anni precedenti, sia indipendente e inoltre, essendo iscritto anche nell’elenco dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese, sia munito di entrambe le iscrizioni necessarie per redigere tanto l’attestazione sulla convenenza quanto la relazione sui dati aziendali. In verità la lettera della norma pare fare riferimento a due soggetti distinti, ma non esclude la possibilità di cumulo dei due incarichi, che è inoltre tutt’altro che preclusa dalla ratio della disposizione. Infatti, durante i lavori preparatori della norma di cui trattasi, in un primo tempo era stata prevista solo la redazione dell’attestazione e, quando successivamente l’Amministrazione finanziaria ha richiesto di prevedere anche la redazione di una relazione sulla completezza e veridicità dei dati aziendali, si è ritenuto di affidare l’elaborazione di questo secondo documento al revisore legale della società, ove esistente, per contenerne gli oneri; ciò sul presupposto che, se tale attività deve essere svolta dal soggetto che già è incaricato del controllo contabile della società, il suo costo dovrebbe essere più contenuto di quello che dovrebbe essere sostenuto in caso di affidamento del medesimo incarico a un soggetto esterno. In altri termini, il riferimento al revisore legale non nasce dall’esigenza di far redigere la relazione sui dati aziendali a un professionista diverso dall’attestatore, munito di particolari competenze o comunque di competenze che l’attestatore non possiede; bensì dalla volontà di limitare i costi professionali complessivi, affinché la loro entità non scoraggiasse la previsione della elaborazione di una seconda relazione. In considerazione di tale ratio, non è pertanto in alcun modo contrario allo
spirito della norma l’affidamento di entrambi gli incarichi a un unico professionista.
L’accordo deve essere sottoscritto dalle parti, che devono comunicarlo all’esperto, e produce effetto con il suo deposito presso il tribunale competente.
Anche se nulla viene previsto al riguardo dalla nuova norma, ove l’accordo arrechi pregiudizio ai creditori o alle prospettive di risanamento dell’impresa, l’esperto dovrebbe segnalarlo all’imprenditore e all’organo di controllo ai sensi dell’art. 21 del Codice della crisi, rilevandolo anche nella relazione finale richiesta dall’art. 17, comma 8. Infatti, a seconda del suo contenuto, l’accordo proposto dall’imprenditore alle agenzie fiscali potrebbe rivelarsi potenzialmente non coerente con le trattative avviate con gli altri creditori e con il risanamento aziendale (perché, ad esempio, è troppo oneroso e sottrae risorse essenziali per soddisfare altre preminenti esigenze); pertanto, in questi casi, con un approccio preventivo e una funzione dissuasiva l’esperto deve comunicare il proprio eventuale dissenso all’organo amministrativo e a quello di controllo, motivandolo mediante l’indicazione degli
effetti negativi che quell’accordo può generare nei confronti dei creditori e rispetto al riequilibrio della situazione dell’impresa debitrice. Al contrario, l’assenza di qualsiasi censura, dovrebbe costituire implicito assenso alla transazione.
Il giudice, previa verifica della regolarità dell’accordo e dei suoi allegati, ne autorizza l’esecuzione con decreto oppure, nel caso in cui non ne ravvisi la regolarità, dichiara che esso è privo di efficacia. La regolarità che il giudice è chiamato ad accertare è solo quella formale o investe anche una
valutazione di merito circa gli effetti generati dall’accordo rispetto al risanamento con facoltà di avvalersi dell’esperto per eventuali approfondimenti? Dalla relazione accompagnatoria del correttivo emerge che si tratta di una regolarità formale, considerata l’esigenza di non snaturare la composizione negoziata e di evitare un procedimento giurisdizionale per sostituire il consenso dei creditori pubblici. Ciò è coerente con la considerazione che ai fini dell’efficacia dell’accordo l’autorizzazione del giudice non sarebbe necessaria e che essa è stata prevista solo per fornire all’amministrazione finanziaria, per così dire, un conforto esterno attraverso tale provvedimento. È tuttavia da ritenersi che la funzione del giudice non possa essere meramente “notarile” e che, in presenza di ragioni anche sostanziali che rendano l’accordo pregiudizievole rispetto al risanamento, debba anche solo per tale motivo dichiararne l’inefficacia.
È quindi esclusa la possibilità di cram down fiscale e ciò non deve stupire, attesa la natura della composizione negoziata, che è incompatibile con adesioni forzose dei creditori e non prevede un procedimento di omologazione dell’accordo raggiunto tra i creditori e il debitore.
Nonostante la possibilità di concludere nella composizione negoziata un accordo relativo ai debiti tributari, il debitore che ha avuto accesso a tale percorso potrà comunque avere interesse a formulare una proposta di transazione fiscale in senso proprio da attuare nell’ambito di un accordo di ristrutturazione o di un concordato preventivo, ove ritenga opportuno non privarsi della possibilità del cram down. In tale prospettiva nulla vieta che tale proposta possa essere presentata anche durante
la stessa composizione negoziata, seppur prevedendone l’attuazione nell’ambito di altri istituti, quando già si prevede che la composizione negoziata sfocerà in una procedura concorsuale.
Tuttavia, alcuni uffici periferici delle agenzie fiscali, errando a modesto avviso di chi scrive, hanno sinora sostenuto il contrario, poiché “l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi di natura concorsuale, di cui al comma 2 dell’art. 23 del Codice della crisi, è subordinato dal legislatore all’impraticabilità delle soluzioni di natura contrattuale individuate dal precedente comma 1, laddove le trattative non abbiano avuto esito positivo”; oppure perché “la valutazione della proposta di accordo di ristrutturazione presuppone che la procedura di composizione negoziata sia stata oggetto di archiviazione” (i due virgolettati sono tratti da comunicazioni inviate da uffici, non secondari, dell’Amministrazione finanziaria).
Non vi è dubbio che, quando l’accordo di ristrutturazione dei debiti, con connessa transazione fiscale, succede alla composizione negoziata, esso poteva e può essere attuato solo dopo che questo percorso è cessato, ma non che la proposta di transazione fiscale non potesse e non possa essere presentata anche durante tale fase, seppur con lo scopo di concludere con il Fisco l’accordo che ne costituisce oggetto nella procedura in cui è già previsto che la composizione negoziata sfociasse o sfoci; cioè se durante tale percorso (se non anche nello stesso momento della domanda di nomina dell’esperto) già emerge l’opportunità che esso sfoci in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in un concordato preventivo, in conformità al disposto dell’art. 23, comma 2, del Codice della crisi.
È quindi errata la prassi di quegli uffici delle agenzie fiscali secondo cui nel corso della composizione negoziata della crisi un accordo che prevedesse la riduzione dei debiti tributari non solo non era attuabile – il che per i motivi esposti nei precedenti paragrafi era condivisibile -, ma non avrebbe potuto essere neppure proposto mediante il deposito della domanda di transazione fiscale, ancorché sul presupposto di darvi attuazione nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti in cui già si prevedeva che la composizione negoziata avrebbe trovato sbocco. Ciò, peraltro, contraddicendo la (corretta) prassi di altri uffici della stessa Agenzia delle Entrate che hanno, invece, correttamente ritenuto che, ferma restando (in passato) l’inattuabilità della transazione in quest’ultimo ambito, nulla vietasse di formulare durante la composizione negoziata una proposta allo scopo di raggiungere tempestivamente un accordo nel contesto dell’accordo di ristrutturazione a cui già si prevedeva di far ricorso. Basti ricordare, per un conforto operativo, due dei casi più noti di composizione negoziata sfociata in accordi di ristrutturazione dei debiti con significativa transazione fiscale: quelli (già citati) delle società “Sampdoria U.C. S.p.A.” ed “Egea Commerciale S.p.A.”). Paradigmatico è il caso della “Sampdoria U.C. S.p.A.”: alla fine del mese di gennaio del 2023 ha chiesto l’accesso alla composizione negoziata della crisi, ottenuto nei giorni successivi; nel seguente mese di aprile è
emersa la necessità, al fine di consentire il risanamento della società attraverso l’intervento di un investitore, di falcidiare considerevolmente i debiti tributari e di dar quindi corso a un accordo di ristrutturazione dei debiti nel cui ambito potesse trovare applicazione la transazione fiscale, necessaria per concordare con l’Amministrazione finanziaria (o comunque per ottenere mediante l’eventuale cram down) tale falcidia; l’8 maggio 2023 è stata presentata la proposta di transazione fiscale, che nei mesi successivi è stata oggetto di diversi confronti con l’Agenzia delle Entrate, la quale ha lealmente collaborato all’individuazione della miglior soluzione per l’Erario, rendendo necessarie alcune modifiche della proposta; il 4 agosto 2023 l’Agenzia delle Entrate ha comunicato l’approvazione della proposta di transazione; la composizione negoziata si è conclusa il 10 agosto 2023; il giorno successivo è stato sottoscritto con l’Agenzia delle Entrate l’accordo di ristrutturazione dei debiti tributari maturati sino al 20 giugno 2023 e nel medesimo, giorno è stata presentata al competente tribunale domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti conclusi con varie categorie di creditori, incluso quello sottoscritto con l’Agenzia delle Entrate; nell’ottobre 2023 il Tribunale di Genova ha omologato tali accordi.
La questione concernente la possibilità di presentare la proposta di transazione nel corso della composizione negoziata, ancorché sul presupposto di attuarla in un diverso e successivo istituto, non attiene solo al profilo temporale rimanendo priva di effetti sostanziali. Infatti, nelle ristrutturazioni aziendali la tempestività e la celerità sono essenziali (oltre all’apporto, beninteso, di capitali e managerialità) e la suddetta “tesi negazionista” di alcuni uffici, costringendo l’impresa debitrice a
presentare la proposta di transazione fiscale solo dopo la chiusura della composizione negoziata, che poteva e può avere una durata anche di trecentosessanta giorni, comportava un ampliamento dei tempi del risanamento che non giovava né alle imprese né ai loro creditori, Erario incluso, visto che anch’esso subiva gli effetti negativi di tale rallentamento, non foss’altro quelli costituiti dal ritardo con cui recupera i suoi crediti.
Del resto, se così non fosse, in presenza di debiti tributari significativi, il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di archiviazione dell’istanza di composizione negoziata (di cui all’art. 17 del Codice della crisi) – previsto dal successivo art. 25- sexies per presentare una proposta di concordato liquidatorio semplificato – non avrebbe potuto essere mai rispettato. Infatti, ai fini dell’accesso a tale procedura occorreva che durante la composizione negoziata si fossero svolte le trattative con i creditori e che queste non avessero avuto esito positivo, il che presupponeva che fossero state avviate trattative anche con l’Amministrazione finanziaria mediante la presentazione della proposta di transazione fiscale. Lo ha chiarito da tempo il Tribunale di Bergamo che, con decreto in data 21 settembre 2022 (presidente De Simone), ha dichiarato l’inammissibilità di una proposta di concordato semplificato discendente da una composizione negoziata alla quale era stato richiesto l’accesso nonostante la presenza di rilevanti debiti tributari, la cui utile definizione avrebbe reso necessario il ricorso alla transazione fiscale; ciò perché “il concordato semplificato costituisce una extrema ratio cui è possibile affidarsi solo se non risultano praticabili gli altri strumenti di regolazione della crisi annoverati dal citato art. 23 come esiti fisiologici della composizione negoziata”, i quali includono l’accordo di ristrutturazione, nel cui ambito può trovare applicazione la transazione fiscale.
Secondo la suddetta tesi “negazionista” di alcuni uffici dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Dogane, per poter accedere al concordato semplificato, la verifica della praticabilità degli strumenti diversi dalla composizione negoziata – per usare le parole impiegate dal Tribunale di Bergamo – dovrebbe poter essere completata nell’arco temporale di sessanta giorni; tuttavia, poiché nessun procedimento di transazione fiscale può essere completato così rapidamente, applicando tale tesi (in base alla quale anche la sola proposta di transazione potrebbe essere formulata solo a seguito della conclusione della composizione negoziata) si perverrebbe all’assurda conclusione che in presenza di debiti tributari significativi l’accesso al concordato semplificato sarebbe sempre precluso, a causa della materiale impossibilità di accertare la impraticabilità di altri strumenti nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell’archiviazione della composizione negoziata. Conclusione che sarebbe, appunto, assurda, come – a modesto avviso di chi scrive – la tesi da cui deriva.
Un ulteriore dato normativo che conferma quanto testé affermato è inoltre ricavabile dall’ultimo periodo della disposizione recata dalla novellata lett. b) del comma 2 dell’art. 23, ai sensi della quale la percentuale del 75 per cento di cui all’art. 61 è ridotta al 60 per cento se il raggiungimento dell’accordo di ristrutturazione che segue la chiusura della composizione negoziata risulta dalla relazione finale dell’esperto o “se la domanda di omologazione è proposta nei sessanta giorni
successivi alla comunicazione di cui all’art. 17, comma 8”, successivi cioè alla comunicazione di tale relazione che l’esperto esegue all’imprenditore e a coloro che hanno partecipato alle trattative. Ciò posto è oltremodo evidente che, in presenza di debiti tributari, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione non può certamente essere richiesta – nemmeno avvalendosi del cram down – nell’anzidetto termine di sessanta giorni, se la proposta di transazione fiscale non è stata formulata dal debitore alle agenzie fiscali nel corso della composizione negoziata e quindi prima della sua chiusura; è infatti impossibile ottenere entro sessanta giorni dalla presentazione della proposta la pronuncia delle agenzie fiscali, le quali hanno del resto il diritto di pronunciarsi non prima del temine di novanta giorni dal deposito della proposta (e dei relativi allegati).
Allo scopo di disciplinare espressamente la suddetta possibilità, evitando contrasti interpretativi e prassi inadeguate, era stata prevista l’introduzione nell’art. 23 del Codice di un ulteriore comma (2-ter) recante la seguente disposizione: “Il debitore, qualora preveda che all’esito delle trattative non sarà individuata una soluzione fra quelle di cui al comma 1 e intenda avvalersi delle disposizioni recate dal comma 2, lettere b) o d), può presentare alle agenzie fiscali la proposta di trattamento dei
crediti tributari di cui agli articoli 63, 64 bis, comma 1 bis, e 88 anche nel corso della composizione negoziata della crisi, ferma restandone l’approvazione da parte di dette agenzie successivamente all’archiviazione di cui all’art. 17, comma 8”.
Tuttavia, tale norma non è stata inserita nel testo definitivo del decreto correttivo, per l’opposizione dell’Amministrazione finanziaria, che non l’ha peraltro contrastata nel merito ma l’ha ritenuta semplicemente superflua, in quanto sarebbe stata già chiara la possibilità di presentare nel corso della composizione negoziata una proposta di transazione fiscale da attuare nell’istituto di sbocco di quest’ultima. Tale considerazione è di per sé condivisibile, ma le comunicazioni delle agenzie fiscali
sopra richiamate attestano il contrario e avrebbero quindi reso opportuna l’introduzione della suddetta norma, attesa la sua funzione chiarificatrice alla luce della prassi “negazionista” adottata proprio da alcuni uffici dell’Amministrazione finanziaria.
Indipendentemente da ciò, il decreto correttivo ha aggiunto all’art. 23 del Codice della crisi, oltre al più volte citato comma 2 bis, anche un ulteriore comma (il 2 ter, che non ha tuttavia nulla in comune con quello di cui si auspicava l’inserimento di cui sopra), con il quale è stato stabilito che le soluzioni di cui ai commi 1 e 2 (ovviamente del medesimo art. 23) – tra le quali sono comprese quelle costituite
dall’accordo di ristrutturazione dei debiti e dal concordato preventivo – “possono intervenire durante le trattative o a conclusione della composizione negoziata e la sottoscrizione dell’esperto, quando prevista, può essere apposta successivamente”. Tale inserimento ha lo scopo di precisare, congiuntamente al disposto dei novellati commi 1 bis dell’art. 22 e 2 dello stesso art. 23, quanto segue:
– l’esito della composizione negoziata non deve essere considerato positivo solo se e in quanto la composizione negoziata conduca a una delle soluzioni di risanamento previste dal comma 1 o dal comma 2, lett. b), dell’art. 23. Infatti, anche gli altri sbocchi giurisdizionali di cui al comma 2 devono essere visti come risultati positivi della composizione, che, rispetto a essi, è in questi casi chiamata a svolgere un ruolo preparatorio, ma importante, al fine di rendere possibile e più efficiente il risanamento delle imprese;
– la natura della composizione negoziata fa sì che ogni atto funzionale alla ristrutturazione dei debiti deve essere eseguito al momento ritenuto più opportuno e quindi anche successivamente al deposito della relazione finale dell’esperto;
– i possibili sbocchi della composizione negoziata possono intervenire sia durante le trattive sia dopo la chiusura delle stesse.
Seppur in assenza di una norma, quale sarebbe stata quella sopra indicata, che disponga specificamente la possibilità di formulare una proposta di transazione fiscale di cui agli articoli 63 e 88 del Codice della crisi anche durante la composizione negoziata, sebbene prevedendone la definizione successivamente alla conclusione della stessa, dal citato inserimento del comma 2-ter nell’art. 23 può trarsi pure una indiretta conferma – da parte del legislatore – che tale proposta può essere presentata anche nel corso della composizione negoziata.
4 . La sottoscrizione e la risoluzione dell’accordo
Per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate l’accordo è sottoscritto dal direttore dell’ufficio competente.
La norma non fornisce alcuna indicazione al riguardo e si presenta quindi assai lacunosa, considerato che non indica nemmeno quale sia l’ufficio competente. È tuttavia da ritenersi che si tratti della direzione provinciale (o di quella regionale in caso di “grande contribuente”) competente sulla base del domicilio fiscale dell’impresa debitrice. Nessuna norma fornisce tuttavia elementi utili per stabilire con riferimento a quale momento tale competenza vada individuata: a quello della domanda di nomina dell’esperto oppure a quello in cui vengono avviate le trattative? La laconicità della disposizione rende possibili entrambe le risposte, però, analogamente a quanto è stato previsto in merito a fattispecie simili la seconda ipotesi pare preferibile.
La sottoscrizione ha luogo su parere conforme della competente direzione regionale (va da sé che, se si tratta di “grande contribuente”, tale parere non occorre, ricadendo in tal caso la competenza direttamente sulla direzione regionale). Per i tributi amministrati dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli l’accordo è sottoscritto dal direttore delle direzioni territoriali, dal direttore della direzione
territoriale interprovinciale e, per gli atti impositivi emessi, dagli uffici delle direzioni centrali.
L’ultima parte del comma 2 bis dell’art. 23 stabilisce espressamente che l’accordo si risolve di diritto: i) in caso di apertura della liquidazione giudiziale o della liquidazione controllata o in caso di accertamento dello stato d’insolvenza; ii) per inadempimento se il debitore non esegue integralmente, entro sessanta giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti. La disposizione sulla risoluzione per inadempimento è del tutto analoga a quella prevista dall’art. 63 con riguardo alla
transazione fiscale attuata nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, mentre la clausola relativa all’apertura delle procedure testé indicate corrisponde alla prassi dell’Amministrazione finanziaria, che negli atti transattivi conclusi nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione è solita indicare tali eventi come causa di risoluzione.
5 . La disposizione transitoria
Il decreto correttivo è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 27 settembre 2024 e, ai sensi dell’art. 56, è entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione, 28 settembre 2024. Le nuove norme sono tuttavia applicabili anche alle composizioni negoziate, ai piani attestati di risanamento, ai procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 40 CCII, agli strumenti di regolazione della crisi, alle procedure di liquidazione giudiziale, liquidazione controllata e liquidazione coatta amministrativa, nonché ai procedimenti di esdebitazione e alle procedure di amministrazione straordinaria pendenti alla suddetta data del 28 settembre.
Pur essendo questa la regola generale, è però prevista una diversa disciplina transitoria relativamente alle disposizioni che hanno introdotto la possibilità di concludere l’accordo sui debiti tributari nella composizione negoziata e nel PRO così come a quelle che hanno modificato la disciplina della transazione fiscale e contributiva negli accordi di ristrutturazione e nel concordato preventivo.
Conseguentemente l’accordo di cui trattasi trova applicazione solo alle composizioni negoziate avviate con istanza di nomina dell’esperto presentata ai sensi dell’art. 17 CCII dal 28 settembre 2024. È una disposizione transitoria poco comprensibile, perché la possibilità dell’accordo è stata introdotta in quanto ritenuta utile ai fini del risanamento delle imprese che accedono alla composizione negoziata, evitando loro di approdare poi a uno strumento di regolazione della crisi al solo fine di
ristrutturare i debiti tributari mediante l’istituto della transazione fiscale vera e propria; posta l’utilità di tale misura, sarebbe stato preferibile che di essa potessero giovarsi non solo le imprese che
accedono alla composizione negoziata successivamente alla data di entrata in vigore del correttivo, ma anche quelle che, pur avendo a tale data già presentato l’istanza di nomina dell’esperto, dispongono di tutto il tempo necessario per trovare un accordo con le agenzie fiscali sui debiti tributari ai fini del miglior esito del percorso intrapreso. Tuttavia, la norma è chiara e non consente interpretazioni diverse da quelle testé rappresentata.
Note:
[1] In proposito era stato obiettato che la “quota di richiamo IVA”, che ciascuno degli Stati membri è tenuto a versare ogni anno all’Unione Europea, si computava applicando l’aliquota standard dello 0,5% a una base imponibile IVA virtuale e armonizzata, determinata in modo uniforme e secondo regole comunitarie, corrispondente al 50% del Prodotto Interno Lordo di ciascuno di essi, senza alcuna correlazione diretta con l’IVA introitata né con l’ammontare complessivo delle operazioni effettuate nel proprio territorio (cfr. decisione del Consiglio n. 2000/597/CE Euratom).
30 Settembre 2024