di Giulio Andreani e Angelo Tubelli
Con la sentenza n. 18837/2020, la Cassazione ha affermato due rilevanti principi: (i) l’impresa in concordato preventivo deve rettificare l’IVA precedentemente detratta in corrispondenza del diritto del suo fornitore di emettere una nota di variazione in diminuzione dipendente dalla falcidia del relativo credito; (ii) tale obbligo prescinde dall’emissione di detto documento da parte del fornitore e insorge automaticamente per effetto della omologazione del concordato. Il primo principio è condivisibile, mentre lo è meno il secondo, in quanto, per evitare il rischio sia di una perdita erariale sia di un indebito arricchimento dello Stato, l’obbligo di rettifica per il debitore dovrebbe sorgere solo in caso di emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del creditore, che dovrebbe peraltro essere consentita sin dalla data di omologazione della procedura e, quindi, senza doverne attendere la completa esecuzione, contrariamente a quanto ripetutamente sostenuto dall’Agenzia delle Entrate. Su tale ultimo aspetto questa ha peraltro rivisto la propria posizione con il principio di diritto n. 4 del 9 febbraio 2021, ancorché limitatamente al concordato in continuità con assuntore.
1. Premessa
Con la sentenza 11 settembre 2020, n. 18837, la Corte di cassazione ha stabilito che il diritto di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti e sulle importazioni deve essere modulato in funzione della proposta concordataria omologata e, dunque, che la detrazione operata deve essere obbligatoriamente ridotta in misura corrispondente all’ammontare del debito per IVA non pagato al creditore al momento dell’omologa; se così non fosse, si realizzerebbe un indebito arricchimento della procedura concorsuale, a danno dell’Erario. La conclusione dei giudici di legittimità merita di essere esaminata alla luce del diverso orientamento assunto dall’Agenzia delle entrate, già criticato in passato [1], al fine di giungere a un inquadramento sistematico della questione, anche alla luce del principio di diritto n. 4 da quest’ultima recentemente emanato.
2. Obbligo di rettificare la detrazione in caso di mutamento delle condizioni originarie
L’intera disciplina dell’IVA è informata sul principio di neutralità, in forza del quale la base imponibile di tale tributo è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’Amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito al medesimo titolo dal soggetto passivo [2]. In attuazione di questa prescrizione, al fine di consentire il recupero della maggiore imposta dovuta dal soggetto passivo rispetto a quella a lui corrisposta dal cliente, l’art. 90 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 stabilisce quanto segue:
“1. In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri.
2. In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1”.
Il diritto dell’Unione Europea, dunque, correla la rettifica in diminuzione di un’operazione al verificarsi di due distinte ipotesi, ovvero (i) annullamento, risoluzione, recesso e riduzione della base imponibile concordata tra le parti e (ii) mancato pagamento (totale o parziale) del corrispettivo da parte del debitore. Tale distinzione assume un’importanza dirimente, perché gli Stati membri hanno l’obbligo di consentire la rettifica per le fattispecie ricadenti nella prima categoria, mentre hanno facoltà di non riconoscerla per quelle ricadenti nella seconda.
La riduzione “postuma” (in quanto correlata a eventi successivi) della base imponibile di un’operazione rilevante agli effetti dell’IVA e della relativa imposta si riverberano anche in capo al cessionario/committente, che ha portato in detrazione l’imposta originariamente applicata. Infatti, in assenza di un omologo obbligo di rettifica in capo al cessionario/committente, il rispetto del principio di neutralità finirebbe per comportare un danno erariale, in considerazione della restituzione dell’imposta (in tutto o in parte) dall’Erario al cedente/prestatore. Per questa ragione l’art. 184 della Direttiva 2006/112/CE impone agli Stati membri di pretendere da quest’ultimo la rettifica della detrazione operata inizialmente (“quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto”) e, in maniera speculare rispetto al citato art. 90, il successivo art. 185 impone agli Stati membri di richiedere la rettifica della detrazione per le fattispecie ricadenti nella prima categoria, consentendo di non richiederla per quelle ricadenti nella seconda.
La normativa europea contiene dunque due ipotesi di rettifica della detrazione originariamente operata, la quale può discendere:
1) dal mutamento delle condizioni per fruire della detrazione iniziale (connesse all’utilizzo e alla destinazione del bene o della prestazione acquisiti nell’esercizio dell’attività economica);
2) dal mutamento delle condizioni dell’operazione originaria, quali, per esempio, il suo annullamento o l’ottenimento di una riduzione del prezzo.
Nel nostro ordinamento la prima fattispecie è disciplinata dall’art. 19-bis2 del D.P.R. n. 633/1972, mentre la seconda è regolata dall’art. 26, commi 2 ss., a norma del quale il cedente/prestatore ha diritto di recuperare la maggiore imposta applicata quando l’operazione viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza (i) di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, (ii) per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose, (iii) per mancato pagamento in tutto o in parte a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f., ovvero di un piano attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.f. pubblicato nel registro delle imprese, (iv) in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente.
Come rilevato nella relazione di accompagnamento allo schema originario del Decreto IVA, “mentre la rettifica prevista dal primo comma (ovverosia la variazione in aumento, N.d.A.) è sempre obbligatoria, quella del secondo comma è facoltativa ed è ammessa soltanto in casi ben determinati” [3]; tuttavia, se tale rettifica è effettuata dal cedente/prestatore, “ad essa deve corrispondere una rettifica in aumento dell’imposta dovuta dall’acquirente o committente per effetto della corrispondente riduzione della detrazione”. Il carattere non obbligatorio della rettifica in diminuzione al verificarsi degli eventi previsti dalla normativa interna è dovuto alla considerazione che “la mancata esecuzione della variazione non comporta, in ogni caso, conseguenze pregiudizievoli per l’Erario” [4], giacché, in caso di mancata attivazione di tale diritto da parte del cedente/prestatore, l’imposta resterebbe da questi dovuta, mentre il cessionario/committente continuerebbe a fruire della detrazione della stessa [5].
Per tutte queste ragioni il legislatore italiano ha ritenuto di dare attuazione alla normativa europea stabilendo:
a) il principio generale della non obbligatorietà della variazione in diminuzione in presenza di mutamento delle condizioni dell’operazione originaria;
b) la conseguente attribuzione al cedente/prestatore del diritto di decidere se conferire o meno rilevanza IVA agli eventi da cui discende il mutamento delle condizioni dell’operazione originaria;
c) in caso di esercizio di tale diritto, l’insorgenza del conseguente obbligo del cessionario/prestatore di rettificare la detrazione inizialmente operata (rendendo così neutra la variazione in diminuzione rispetto all’Erario) e il conseguente diritto da parte di questi di ottenere la restituzione della maggiore imposta eventualmente già versata al cedente/prestatore.
Con riguardo a quanto indicato sub c), infatti, l’art. 26, comma 5, dispone testualmente quanto segue: “Ove il cedente o prestatore si avvalga della facoltà di cui al comma 2 (ovverosia del diritto di attribuire rilevanza IVA alla rettifica in diminuzione dell’operazione originaria, N.d.A.), il cessionario o committente (…) deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o dell’art. 24, nei limiti della detrazione operata, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”.
In altri termini, nel dare attuazione alle prescrizioni della normativa eurounionale, il legislatore italiano ha rimesso al cedente/prestatore la scelta (in presenza del verificarsi degli eventi sopra citati) di rettificare o meno in diminuzione l’operazione ai fini dell’IVA, subordinando/correlando all’esercizio di tale facoltà il corrispondente obbligo del cessionario/committente di ridurre l’imposta a suo tempo detratta, che ne costituisce il necessario corollario [6].
Il meccanismo di rettifica elaborato nella normativa interna è in sintesi imperniato sull’iniziativa del soggetto passivo, che ha applicato un’imposta resasi successivamente (per effetto di un mutamento delle condizioni originarie) in tutto o in parte non dovuta; se tale diritto viene esercitato tramite l’emissione di un documento comunemente denominato “nota di variazione in diminuzione”, sorge l’obbligo del destinatario di rettificare la detrazione a suo tempo operata attraverso la ricezione e la registrazione di detto documento. A differenza del meccanismo di rettifica della detrazione disciplinato dall’art. 19-bis2 del D.P.R. n. 633/1972 (riferito al mutamento nelle condizioni utilizzo e destinazione del bene o della prestazione acquistati), quindi, l’obbligo di rettifica della detrazione previsto dall’art. 26, comma 5, in presenza di un cambiamento delle condizioni dell’operazione non è imposto in maniera autonoma in capo al cessionario/committente, ma è strettamente correlato alla scelta del cedente/prestatore di attribuire rilevanza a tale mutamento agli effetti dell’IVA.
La conformità del meccanismo interno alla normativa europea, invero, è stata progressivamente confutata nell’ultimo decennio da alcune pronunce emanate dalla Corte di cassazione, facendo leva sui principi elaborati dalla Corte di Giustizia UE in ordine all’obbligo di rettifica della detrazione imposto agli Stati membri ai sensi del citato art. 185 della Direttiva UE 2006/112/CE (come evidenziato nel successivo paragrafo, queste pronunce sono state richiamate nella sentenza n. 18837/2020 a fondamento delle conclusioni raggiunte con riguardo alle imprese assoggettate a procedure concorsuali).
In particolare, con la sentenza 11 dicembre 2013, n. 27698, avente ad oggetto la mancata rettifica da parte della cessionaria dell’imposta assolta in relazione alla compravendita (successivamente risolta) di tre immobili, con riguardo alla quale l’impresa cedente non aveva provveduto a versare l’imposta originariamente applicata né ad emettere la nota di variazione in diminuzione (a seguito della risoluzione del contratto), i giudici di legittimità l’hanno giudicata comunque obbligatoria, così testualmente motivando la propria decisione: “l’art. 21, n. 1, lett. c) della Sesta Direttiva prevede che chiunque esponga l’IVA in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta (…). Questa regola, che si specchia nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; ed il rischio di perdita di gettito fiscale sussiste ‘fintantoché il destinatario di una fattura che espone un’IVA non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio’ (Corte giust., sentenza Schmeink & Cofreth e Strobel, punto 57). Il meccanismo predisposto dal D.P.R. n. 633 del 1972 art. 26 risponde giustappunto a tali finalità: la registrazione della variazione da parte del cessionario è idonea ad escludere il rischio di perdita di gettito fiscale, poiché esplicita che egli non ha diritto alla detrazione dell’IVA. Dunque, il cessionario che detragga l’IVA di rivalsa annotando la fattura nel registro degli acquisti deve registrare la variazione (annotando la nota nel registro delle vendite), al fine di evidenziare un debito pari alla detrazione in precedenza operata, che è così neutralizzata” [7].
Alla medesima conclusione la Corte di cassazione è giunta con la sentenza 13 maggio 2016, n. 9845, avente ad oggetto una fattispecie molto simile a quella precedente, testualmente osservando che, in caso di eventi successivi al compimento dell’operazione imponibile, per poter esercitare il diritto di detrazione l’acquirente deve applicare “il meccanismo previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26 (…). D’altronde, il sistema prevede come rimedio per il cessionario il diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa, di guisa che l’IVA già pagata va retrocessa al titolare del diritto al rimborso, comprendendo tale diritto l’intera prestazione ricevuta e divenuta indebita. Il congegno così elaborato mira a garantire il principio di neutralità dell’IVA e, ad un tempo, ad evitare il rischio di perdita di gettito fiscale per l’Erario. Difatti, in una fattispecie in tutto analoga a quella in esame, la Corte di Giustizia (Corte giust. 3 marzo 2014, causa C-107/13, Firin 00D) ha stabilito che ‘gli artt. 65, 90, par. 1, 168, lett. a), 185, par. 1, e 193 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio 28 novembre 2006 devono essere interpretati nel senso che impongono che la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, operata dal destinatario di una fattura redatta ai fini del pagamento di un acconto concernente la cessione di beni, sia rettificata nel caso in cui, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, tale cessione, in definitiva, non sia stata effettuata, anche qualora il fornitore resti debitore di tale imposta e non abbia rimborsato l’acconto’ (…). Né sull’obbligo di rettifica gravante sul cessionario o sul committente, ha aggiunto la Corte di Giustizia, può incidere la circostanza che l’IVA dovuta dal fornitore non sia stata essa stessa rettificata” [8].
Le medesime argomentazioni e conclusioni si rinvengono nella sentenza 7 dicembre 2017, n. 29380, riferita anch’essa (così come quella precedentemente citata) all’obbligo di rettificare l’imposta detratta dal promissario acquirente in relazione al pagamento di un acconto per l’acquisto di un immobile alla fine non perfezionatosi, ma in cui questi non aveva registrato la nota di variazione in diminuzione emessa e consegnatagli dal promittente venditore, in palese violazione dell’art. 26 del D.P.R.. n. 633/1972.
3. Obbligo di rettifica della detrazione per l’impresa in concordato preventivo
Come dianzi riferito, con la sentenza n. 18837/2020 le argomentazioni sopra esposte sono state applicate dalla Corte di cassazione con riguardo all’IVA detratta dall’impresa assoggettata alla procedura di concordato preventivo, oggetto di omologazione. Con tale pronuncia, infatti, i giudici di legittimità hanno affermato quanto segue:
a) il committente in concordato preventivo ha l’obbligo di rettificare la detrazione IVA non assolta in sede di rivalsa, quale effetto dell’omologazione del concordato preventivo nella misura in cui la rivalsa IVA non sia stata assolta, il quale costituisce, nel rispetto del principio di neutralità dell’imposta, la contropartita dell’insorgenza del diritto del prestatore di rettificare in diminuzione l’imposta originariamente applicata;
b) il committente perde sin dalla data di omologa della proposta concordataria – nella misura di soddisfacimento dei crediti ivi prospettata – il diritto detrarre l’imposta oltre la misura effettivamen-te da assolvere secondo la proposta omologata, dovendosi per altro verso considerare irrilevante a tal fine l’emissione o meno delle note di variazione da parte del prestatore. Infatti l’emissione della nota di variazione “inerisce alla sola posizione del prestatore, al fine della modifica della propria base imponibile quale effetto della definitiva non recuperabilità del proprio credito di rivalsa. Il ricorrente non ha, pertanto, interesse a verificare se e in che misura il prestatore avrebbe perso il diritto alla emissione delle note di variazione (rettifica) in riduzione dell’imposta versata, in quanto la detrazione va esercitata nei termini indicati nella proposta omologata”;
c) la modifica della base imponibile su cui calcolare la detrazione deve dunque avvenire al momento dell’omologazione del concordato, indipendentemente dall’emissione delle note di variazione in diminuzione da parte dei creditori rimasti parzialmente o totalmente insoddisfatti, in quanto è l’omologa della proposta concordataria che comporta la perdita, ovvero la rimodulazione dell’esercizio della detrazione in conformità della proposta medesima”;
d) se così non fosse, il costo dell’insolvenza relativamente all’IVA verrebbe accollato allo Stato, risultando l’importo della detrazione superiore all’imposta effettivamente assolta dal committente insolvente;
e) quanto sopra detto, peraltro, “non esclude (per le proposte concordatarie omologate nelle forme del concordato per cessione dei beni) che la percentuale di recuperabilità possa in concreto variare a seguito dell’andamento della liquidazione concordataria, posto che la proposta omologata si limita a indicare un impegno di soddisfacimento dei crediti. Ma questo comporterà un mutamento ulteriore della detrazione (rispetto alla proposta omologata), in riduzione (in caso di liquidazione non performante) ovvero in aumento (in caso di liquidazione più che performante rispetto alla proposta omologata), al fine di consentire un costante adeguamento dell’esercizio della detrazione al peso dell’imposta che andrà definitivamente a gravare sul soggetto inciso (prestatore)”.
In sostanza dalla citata sentenza n. 18837/2020 si ricava l’affermazione dei princìpi di seguito indicati:
1) l’impresa in concordato preventivo è obbligata a rettificare l’IVA precedentemente detratta in corrispondenza del diritto del suo fornitore di emettere una nota di variazione in diminuzione dipendente dalla falcidia del relativo credito;
2) tale obbligo prescinde dall’emissione della nota di variazione da parte del fornitore e insorge automaticamente per effetto della omologazione del concordato (ovverosia dalla data del relativo provvedimento);
3) a decorrere da tale momento il cedente/prestatore, per converso, può esercitare del pari il diritto di chiedere la restituzione dell’IVA applicata e non incassata, mediante l’emissione della nota di
variazione in diminuzione.
Detti princìpi sono stati affermati con riferimento al caso particolare di una società in concordato preventivo che vantava un credito IVA maturato in relazione a fatture per prestazioni professionali di cui il piano concordatario omologato prevedeva la soddisfazione parziale (con conseguente pagamento parziale dell’IVA sugli acquisti che lo aveva generato), non potendosi richiedere il rimborso dell’IVA a credito non effettivamente assolta in quanto oggetto di definitivo stralcio; ad essi, tuttavia, sembra potersi ormai attribuire una valenza generale. Lo dimostra quanto affermato dalla medesima Corte con la (quasi) coeva sentenza 16 novembre 2020, n. 25896, con cui è stata considerata illegittima la pretesa dell’Amministrazione finanziaria di richiedere al creditore il pagamento dell’IVA di rivalsa addebitata a un’impresa assoggettata a fallimento che aveva ex se rettificato l’ammontare della detrazione, in quanto “l’obbligo di assolvere l’IVA imposto a chi la indichi in una fattura non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale e, in particolare, non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’IVA (…) E ciò vale anche se il fornitore non ha proceduto alla rettifica”, avendo proceduto alla rettifica della detrazione direttamente il cessionario/committente, con conseguente venir meno del rischio della perdita erariale.
La sostanziale “riscrittura” dell’art. 26, commi 2 ss., operata dalla Corte di cassazione (in forza della quale l’obbligo di rettifica la detrazione non sarebbe più condizionato all’effettivo esercizio della facoltà di rettifica conferita al cedente/prestatore, ma sarebbe del tutto autonomo e indipendente), richiede di essere confrontata con l’interpretazione finora fornita dall’Agenzia delle entrate con riguardo all’obbligo di rettifica dell’IVA detratta da parte dell’impresa debitrice assoggettata a una procedura concorsuale.
In proposito occorre in particolare rammentare che, con la risposta a interpello n. 113 del 18 dicembre 2018 e con la risposta n. 54 del 30 ottobre 2018, confermando il precedente orientamento l’Agenzia si è pronunciata sul trattamento che l’impresa in concordato preventivo deve riservare all’imposta alla stessa addebitata con le predette note di variazione. In queste occasioni, nonostante l’assenza di una norma che espressamente escluda le imprese assoggettate a procedure concorsuali dall’obbligo di registrare “in aumento” la nota di variazione in diminuzione eventualmente emessa dal fornitore, ha ribadito che la regola generale sancita dal comma 5 dell’art. 26 “deve essere interpretata tenendo conto della disciplina e degli effetti tipici del concordato preventivo, nella parte in cui consente al debitore di evitare la dichiarazione di fallimento, adempiendo gli obblighi assunti nei confronti dei creditori. In particolare, … essendo la nota di variazione relativa ad un debito sorto prima dell’avvio della procedura concorsuale, la sua registrazione non comporta, per il debitore concordatario, l’obbligo di rispondere verso l’Erario di un debito sul quale si sono già prodotti gli effetti estintivi del concordato preventivo. Diversamente, … si avrebbe una deroga all’efficacia liberatoria della procedura, da ritenersi ingiustificata in relazione alle norme che dispongono l’estinzione di ogni debito sorto anteriormente all’inizio della procedura medesima”. Con tali provvedimenti è stata così riaffermata l’assenza di un obbligo di versamento della maggiore imposta, perché il debito verso l’Erario discendente dalla nota di variazione in diminuzione, così come il credito cui è geneticamente connesso, si considera sorto in capo al cessionario/committente anteriormente alla pubblicazione, nel registro delle imprese, della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, restando quindi soggetto all’effetto esdebitatorio sancito dall’art. 184 l.f. [9].
Questa conclusione, peraltro, è figlia anche della regola generale postulata dall’Agenzia delle entrate secondo cui al fornitore non sarebbe consentita l’emissione della nota di variazione prima della definitiva conclusione della procedura concorsuale. Rispetto a essa l’Agenzia, con il principio di diritto n. 4 del 9 febbraio 2021, ha invero riconosciuto sussistente un’unica eccezione riferita al concordato preventivo in continuità con assuntore, potendo in tal caso detto documento essere emesso “nei confronti del debitore originario, per la quota percentuale del credito ‘falcidiato’, dal momento in cui diventa definitivo il decreto di omologa del concordato. È in tale momento, infatti, che si configura l’irrecuperabilità della parte del credito falcidiato, non potendo il creditore promuovere istanza volta a decretare il fallimento del debitore originario laddove l’assuntore non sia in grado di far fronte all’obbligazione concordataria”. L’aspetto discriminante di detta forma di concordato, rispetto alle altre, risiede – secondo l’Agenzia delle entrate – nella definitiva e completa “liberazione” del debitore originario con l’omologa, nei cui confronti risultano del tutto irrilevanti le vicende circa l’effettivo adempimento dell’obbligo di soddisfacimento dei creditori, gravante unicamente sull’assuntore [10]; nelle altre forme di concordato, invece, la misura della falcidia di cui godrebbe il debitore originario normalmente muta dopo l’omologa del concordato e, quindi, potrebbe essere definitivamente determinata soltanto al momento dell’adempimento dei relativi obblighi concordatari. La distinzione operata dall’Agenzia resta, ad avviso di chi scrive, priva di pregio, in quanto, oltre a continuare a essere in contrasto con l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non tiene conto del fatto che, rispetto a quella quantificabile al momento dell’omologa, la misura della falcidia altrettanto normalmente aumenta (anziché diminuire). Inoltre nulla vieta, come affermato dalla Cassazione nella citata sentenza n. 18837/2020, di adeguare successivamente ai sensi del medesimo art. 26 (in aumento o in diminuzione) l’imposta che andrà definitivamente a gravare sul fornitore.
Ad ogni modo, in estrema sintesi, la posizione in linea generale sostenuta dall’Agenzia delle entrate:
1) impone al cedente/prestatore di attendere la conclusione della procedura concorsuale per potere esercitare il diritto di rettifica in diminuzione e ottenere così la restituzione dell’IVA applicata ma non incassata;
2) in caso di esercizio di tale diritto, non impone all’impresa debitrice assoggettata alla procedura concorsuale alcun obbligo di versamento all’Erario della maggiore imposta detratta, nonostante quanto in generale disposto dal citato comma 5 dell’art. 26.
Emerge dunque con tutta evidenza la distonia tra la consolidata posizione assunta dall’Agenzia delle entrate e i principi sanciti dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 18837/2020 dinanzi enunciati. Secondo quest’ultima, infatti, l’impresa in concordato preventivo dovrebbe provvedere direttamente al momento dell’omologa a rettificare (nei propri libri IVA) l’imposta a suo tempo detratta, in funzione dell’importo effettivamente da pagare ai creditori a tale titolo, mentre secondo l’Agenzia tale rettifica dovrebbe essere operata solo a conclusione della procedura e sempreché il fornitore si avvalga della facoltà di emettere la nota di variazione in diminuzione ai fini IVA, non sorgendo comunque, anche in tal caso, un effettivo obbligo di versamento della maggiore imposta.
Potrebbe obiettarsi come nemmeno nella testé citata sentenza si sostenga espressamente la sussistenza di un siffatto obbligo conseguente alla rettifica della detrazione. Tuttavia i giudici di legittimità non hanno distinto le proprie conclusioni a seconda dell’esito della liquidazione IVA post rettifica e segnatamente a seconda dell’emersione di un minor credito IVA ovvero di un debito IVA.
Inoltre non sono mai parse del tutto convincenti le ragioni poste dall’Agenzia delle entrate a fondamento dell’esonero dal versamento dell’imposta derivante dalla rettifica della detrazione originaria. Infatti il credito derivante dalla fornitura di beni e/o di servizi eseguita anteriormente alla data di efficacia di un concordato preventivo (di qualsiasi tipo) dovrebbe essere costituito, non solo dall’importo corrispondente all’imponibile dell’operazione, ma anche dalla relativa imposta, il cui titolare sarebbe stato esclusivamente il fornitore (e non anche l’Erario). Inoltre, i crediti e debiti verso l’Erario conseguenti alla nota di variazione insorgono nel momento in cui quest’ultima viene emessa, e non nel momento di emissione della fattura originaria [11]. Se dunque il debito verso l’Erario che ne consegue viene a esistenza solo dopo l’apertura della procedura concorsuale, esso non dovrebbe essere oggetto di esdebitamento ai sensi dell’art. 184 l.f.
In assenza di un espresso esonero per il debitore concordatario dall’obbligo di registrare la nota di variazione in diminuzione ricevuta e di computare “a debito” della relativa imposta (che, anzi, sulla base della citata sentenza n. 18837/2020 dovrebbe scattare indipendentemente dall’eventuale ricezione della nota di variazione in diminuzione), si profila il rischio che la rettifica in diminuzione renda dovuto il versamento dell’IVA, che in caso contrario resterebbe accollata allo Stato con conseguente danno erariale.
In conclusione, secondo la tesi della Cassazione l’impresa debitrice avrebbe l’obbligo di rettificare la detrazione al momento dell’omologa, ma il creditore (secondo l’Agenzia delle entrate) avrebbe diritto a chiedere la restituzione dell’imposta soltanto al momento della definitiva chiusura della procedura concorsuale.
4. Necessità di un inquadramento sistematico
A giudizio di chi scrive, la soluzione deve essere trovata contemperando (e coordinando) il diritto del cedente/prestatore di recuperare l’IVA non incassata a causa dell’assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale con l’esigenza di evitare un effettivo danno erariale discendente dalla detrazione dell’imposta non assolta. Infatti, se la rettifica della detrazione operasse distintamente dall’effettivo esercizio del diritto di rettificare l’imposta originariamente applicata da parte del fornitore, si potrebbe verificare un indebito arricchimento dello Stato, che incamererebbe l’imposta da questi versata al contempo negando il diritto di detrazione in capo al debitore. Ciò a meno che, al momento di rettifica della detrazione da parte del cliente, lo Stato non fosse automaticamente obbligato a restituire al fornitore l’imposta da questi versata, a prescindere dall’effettiva richiesta di restituzione da parte di questi.
Tuttavia, atteso che siffatto obbligo non sussiste, sono da ritenersi ancora valide le motivazioni che a suo tempo indussero il legislatore interno a subordinare l’obbligo di rettifica all’effettivo esercizio del diritto conferito al cedente/prestatore, se si vuole evitare che l’Amministrazione finanziaria possa riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito al medesimo titolo dal soggetto passivo, in violazione del principio di neutralità il cui rispetto la sentenza n. 18837/2020 intende tutelare.
Inoltre, non pare legittimo interpretare e applicare l’art. 26, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972 “eludendo” l’incipit di tale disposizione, che ancora adesso correla la nascita dell’obbligo di rettifica della detrazione al caso in cui “il cedente o il prestatore si avvalga della facoltà” di emettere la nota di variazione in diminuzione. Se la condizione apposta dal legislatore è da considerarsi non conforme al diritto eurounionale, non se ne possono far ricadere le conseguenze in negativo sui contribuenti, posto che la responsabilità per una norma dimostratasi non conforme alla normativa europea (in base al diritto vivente) non può che essere addebitata allo Stato che la prevede. Si esprimono, infatti, forti perplessità sul fatto che la non conformità della norma interna alla normativa europea e, dunque, l’applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale possano essere invocate, a tutela delle ragioni erariali, proprio dall’Amministrazione finanziaria, che costituisce un’articolazione dello stesso Stato che ha emanata la norma interna ritenuta non conforme [12].
Né vale affermare che la sussistenza di un siffatto obbligo di rettifica in capo al debitore discenderebbe dal diritto a questi attribuito (dal medesimo comma 5) di ottenere dal fornitore l’imposta eventualmente versata a titolo di rivalsa: in tal modo, infatti, si confonde la causa con l’effetto, in quanto è il diritto di vedersi restituita l’imposta versata a tale titolo che consegue alla rettifica della detrazione dell’imposta da parte del cliente indotta dalla scelta del fornitore di attribuire rilevanza IVA al mutamento delle condizioni originarie.
Infine, la Corte di Giustizia UE inquadra l’omologa del concordato preventivo come fattispecie estintiva del credito che impedisce ai creditori di chiedere il pagamento integrale dei loro crediti, con conseguente riduzione delle obbligazioni del debitore committente nei confronti dei suoi creditori [13]; e per tale fattispecie – come detto – l’art. 185 della Direttiva UE 2006/112/CE impone allo Stato membro di esigere la rettifica dell’IVA detratta, senza alcuna facoltà di deroga. Tuttavia, almeno secondo l’ordinamento giuridico italiano, tale effetto non discende da un accordo concluso tra creditore e debitore al fine di rideterminare il valore della fornitura del bene o del servizio inizialmente pattuita (tant’è che la falcidia opera anche nei confronti dei creditori che non si sono espressi in maniera favorevole alla proposta concordataria secondo la nota regola del cram down): ad essere rideterminati, infatti, sono unicamente i debiti dell’impresa debitrice in conseguenza della sua acclarata incapacità di far fronte ai propri impegni.
Per queste ragioni è da condividere l’impostazione sostenuta con la sentenza n. 18837/2020 dalla Corte di cassazione nel punto in cui, da un lato, afferma che il diritto del cedente/prestatore di recuperare l’imposta applicata e non incassata può essere esercitato a decorrere dalla data dell’omologa del concordato preventivo e, dall’altro, che per evitare un danno erariale il debitore è obbligato a rettificare la detrazione dell’imposta a suo tempo operata, al fine di evitare un indebito arricchimento per la procedura concorsuale.
Ad avviso di chi scrive, invece, i giudici di legittimità errano nel punto in cui non correlano (come invece espressamente richiesto dall’art. 26, comma 5) tale obbligo all’effettivo esercizio del diritto di rettifica riconosciuto al creditore, richiedendone invece l’adempimento anche se la possibilità per quest’ultimo di avvalersi di tale diritto è soltanto potenziale oppure anche quando sia addirittura non più esercitabile, qualora siano ormai decorsi i relativi termini. Invece l’obbligo di rettifica dovrebbe sorgere solo in caso di effettiva emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del creditore (da un punto di vista pratico questo implicherebbe la necessità di prevedere, nella proposta concordataria, un fondo per i debiti conseguenti al probabile esercizio, da parte dei fornitori, del diritto di rettificare in diminuzione l’imposta originariamente applicata a titolo di rivalsa nei confronti dell’impresa debitrice).
In questo modo l’interpretazione dell’art. 26, comma 5, nella sua formulazione attualmente vigente, appare conforme sia alla lettera sia alla ratio della norma, nonché rispettosa del principio di neutralità cui è informata la disciplina dell’IVA ed idonea a scongiurare il rischio di un “salto d’imposta”.