di Giulio Andreani e Angelo Tubelli

L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 34/E/2020, pur rivedendo parzialmente l’indirizzo espresso in precedenza, continua a considerare i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività come finanza endogena, ma ne ammette la possibilità di distribuzione ai creditori secondo il criterio della priorità relativa. L’adozione di tale criterio mitiga gli effetti che tale qualificazione dei flussi produce sull’attribuzione ai creditori del patrimonio del debitore, anche se sarebbe preferibile affermare la natura esogena di detti flussi e, di conseguenza, la libera destinazione degli stessi a favore dei creditori senza necessità di rispettare l’ordine delle cause di prelazione. La posizione assunta dall’Agenzia è peraltro in conflitto con l’orientamento giurisprudenziale che impone il rispetto di tale ordine nella distribuzione delle risorse qualificate come finanza endogena, se non si considera il disposto dell’art. 182-ter, comma 1, l.f., quale deroga alla regola della priorità assoluta, giustificata dalla convenienza della proposta di transazione.

1. Premessa

Il più importante dei presupposti di approvazione della proposta di transazione fiscale è costituito dalla convenienza di tale proposta per l’Erario, la quale emerge dal confronto tra l’ammontare del soddisfacimento offerto al Fisco e quello che questi riceverebbe in alternativa, a seguito della liquidazione dell’impresa debitrice. La determinazione del soddisfacimento alternativamente discendente dalla liquidazione richiede la determinazione del valore del patrimonio del debitore realizzabile in tale ipotesi e l’individuazione dei criteri di ripartizione dello stesso fra i creditori e quindi della parte di esso attribuibile all’Amministrazione finanziaria. Tanto sulla determinazione del patrimonio di liquidazione dell’impresa debitrice quanto sui criteri del suo riparto sono state espresse in dottrina e in giurisprudenza tesi contrastanti e anche l’Agenzia delle entrate ha espresso al riguardo la propria opinione. Scopo di questo contributo è quello di cercare di fare il punto della situazione, anche alla luce dei più recenti indirizzi giurisprudenziali e della circolare dell’Agenzia delle entrate n. 34/E del 29 dicembre 2020.

2. Patrimonio di liquidazione e i criteri di ripartizione dell’attivo ai creditori

In merito ai criteri di attribuzione ai creditori del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore sono state sostenute due diverse tesi:
a) la tesi della priorità assoluta, secondo cui il ricavato dovrebbe essere rigidamente destinato ai creditori privilegiati in base all’ordine delle cause di prelazione, con la conseguenza che un credito privilegiato potrebbe essere soddisfatto solo se vengono prima integralmente soddisfatti i crediti privilegiati di rango superiore [1];
b) la tesi della priorità relativa, secondo cui il ricavato potrebbe essere invece destinato alla soddisfazione di tutti i crediti privilegiati o chirografari anche in assenza dell’integrale soddisfacimento di quelli di rango superiore, essendo unicamente necessario assicurare al credito privilegiato un trattamento migliore rispetto a quelli di rango inferiore [2].
Chi scrive sostiene da tempo, da un lato, che la “tesi della priorità relativa” non trova conforto nel comma 2 dell’art. 160 l.f., considerato il soddisfacimento che i crediti di rango superiore riceverebbero alternativamente in caso di fallimento, e, dall’altro lato, che la distribuzione delle risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” può essere eseguita senza tenere conto dell’ordine delle cause di prelazione, poiché esse non fanno parte di quel patrimonio che in caso di liquidazione dovrebbe essere ripartito secondo tale ordine [3]. Ed invero la versione “forte” della priorità è stata recentemente condivisa dalla Corte di cassazione con la sentenza 8 giugno 2020, n. 10884, secondo cui, ai sensi e per gli effetti dell’art. 160, comma 2, l.f., nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale può trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore; infatti, in forza di detta disposizione la possibilità di sottoporre a falcidia, a beneficio di altri creditori, crediti garantiti da privilegio generale richiede necessariamente che: o i beni hanno un valore eccedente i crediti garantiti, e allora questi devono essere soddisfatti integralmente, o i beni hanno un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non possono essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore.
Proprio perché le risorse finanziarie rientranti nella nozione di “finanza esterna” sono sottratte alle regole del concorso e possono essere quindi liberamente utilizzate dal debitore, è dirimente stabilire se in tale nozione rientrino o meno anche i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività da parte del debitore nell’ambito del concordato preventivo in continuità. Anche su tale questione, invero, si registrano due diverse correnti di pensiero:
1) secondo un orientamento “restrittivo”, nella nozione di “finanza esogena” rientrerebbero unicamente le risorse finanziarie messe a disposizione da terzi senza vincolo di restituzione, mentre “la prosecuzione dell’attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell’attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale” [4].

Per questa corrente di pensiero, dunque, i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività rientrerebbero nella nozione di “nuova finanza” ma non in quella di “finanza esterna” (tuttavia spesso tali termini sono utilizzati anche come sinonimi e possono quindi essere fonte di equivoci; a ben vedere l’espressione più appropriata per qualificare le risorse di cui trattasi, come detto, dovrebbe essere quella di “surplus concordatario”)[5];
2) secondo un orientamento più morbido, invece, le risorse finanziarie originate dalla prosecuzione dell’attività di impresa (ovvero i flussi finanziari disponibili o free cash flow), sebbene da essa provenienti, avrebbero natura “esogena”, poiché non fanno parte del patrimonio dell’impresa debitrice all’apertura della procedura [6]. Per questa diversa corrente di pensiero, infatti, il valore del patrimonio del debitore esistente in tale momento costituisce il limite di soddisfazione della garanzia dei creditori prelatizi ex art. 160, comma 2, l.f. e, perciò, andrebbe tenuto distinto dal valore del patrimonio del debitore successivamente formatosi per effetto della prosecuzione dell’attività, con il quale va invece identificato il “surplus concordatario” al pari degli apporti finanziari esterni al patrimonio del debitore. In altri termini, sulla base di questo indirizzo, al divieto di alterazione delle cause legittime di prelazione e alla regola del concorso non dovrebbero soggiacere le risorse, di qualsiasi natura, che eccedono l’ammontare ricavabile dalla liquidazione dell’attivo (determinato sulla base della relazione prevista dal citato art. 160, comma 2), dal che si desume come “l’ammontare della somma ritraibile dalla liquidazione concorsuale segni il limite minimo di soddisfacimento dei creditori privilegiati” (così Cass., sentenza n. 10884/2020).

3. Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 16/E/2018

Ciò posto, con la circolare n. 16/E del 23 luglio 2018 l’Agenzia delle entrate aveva precisato che, ai fini della comparazione, l’attestatore deve “tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri” [7]. L’Agenzia aveva così mostrato di aderire all’orientamento restrittivo, secondo cui i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, da parte dell’impresa debitrice nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, avrebbero avuto natura “endogena” (in quanto non derivanti da un apporto esterno) e sarebbero quindi da considerare parte del patrimonio di tale impresa a un duplice fine:
a) per determinare il valore del patrimonio realizzabile in caso di liquidazione che, ai sensi del comma 1 dell’art. 182-ter, un professionista indipendente deve comparare con l’offerta formulata al Fisco dall’impresa debitrice mediante la proposta di transazione fiscale, allo scopo di attestarne la necessaria convenienza per l’Erario rispetto all’alternativa costituita dalla liquidazione dell’impresa stessa;
b) per stabilire se i suddetti flussi possono essere destinati liberamente dall’impresa debitrice al soddisfacimento di alcuni crediti piuttosto che di altri, posto che il patrimonio “endogeno”, a differenza di quello “esogeno” (almeno secondo l’orientamento più “rigoroso”), dovrebbe essere utilizzato per il pagamento dei creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione previste dalla legge e non liberamente (art. 160, comma 2, l.f.).
Tale tesi non appariva però conforme alla ratio dell’art. 182-ter, comma 1, che – come detto – richiede all’attestatore di confrontare il trattamento dei crediti tributari contemplato dalla proposta di transazione fiscale con quello discendente dalla liquidazione fallimentare dell’impresa debitrice e, ai fini della determinazione del parametro di raffronto, non può rilevare il “patrimonio futuro” di quest’ultima. Infatti, per quantificare il soddisfacimento derivante dallo scenario alternativo indicato dall’art. 160, comma 2, l’attestatore deve valutare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza dunque tenere conto della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo (ma non nel fallimento), giacché tra la continuazione dell’attività economica ivi prevista e i flussi finanziari che ne discenderebbero sussiste un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non possono manifestarsi senza l’attuazione del risanamento indicato nel relativo piano: quest’ultimo non è che il frutto della ristrutturazione dell’azienda, delle azioni strategiche volte alla riduzione dei costi e al conseguimento di maggiori ricavi, della conversione di debiti in equity nonché dell’acquisizione di nuovi investimenti – da parte dei soci o di nuovi finanziatori – destinati a sostenere la continuazione dell’attività (che costituisce quindi l’indefettibile presupposto di tutte le suddette misure).
Che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica siano classificabili come “finanza esterna” lo si desume altresì dalle disposizioni contenute negli artt. 104 e 104-bis l.f., che ammettono la prosecuzione dell’attività economica (nella forma dell’esercizio provvisorio o dell’affitto d’azienda) soltanto a titolo temporaneo, qualora ciò sia considerato (nel primo caso) strettamente necessario per non recare maggiore pregiudizio ai creditori oppure (nel secondo) conveniente per rendere più proficua la vendita del complesso aziendale. In entrambi i casi, la continuazione dell’attività è ammessa soltanto nella prospettiva di conseguire una migliore liquidazione, ma mai in un’ottica di risanamento, che rimane del tutto estranea rispetto alla procedura fallimentare [8]. Ne consegue che le stime effettuate dal curatore (e, prospetticamente, dall’attestatore) non possono riguardare un’azienda in normale esercizio, essendo l’eventuale prosecuzione in via temporanea dell’attività diretta unicamente alla conservazione dell’azienda in uno stato di efficienza, al fine di preservare il valore residuo che ancora c’è (e non per generare nuovo valore)[9]. La situazione cui deve far riferimento è infatti quella prevista dall’art. 105 l.f., il quale disciplina, appunto, la vendita (mediante procedure competitive) dell’azienda nello stato in cui si trova, in maniera unitaria oppure attraverso singoli rami oppure ancora atomisticamente [10], senza potere considerare gli effetti derivanti dagli atti previsti nella proposta concordataria per riportare l’azienda in una condizione di equilibrio economico. Del resto, se l’attivo discendente dall’ipotesi della liquidazione fallimentare dovesse essere valutato anche assumendo l’avvenuta attuazione delle misure previste nella proposta concordataria, non si vede come essa potrebbe essere definita quale ipotesi alternativa.
Pertanto, poiché i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività economica post risanamento non potrebbero entrare nel patrimonio del debitore in caso di fallimento, essi non possono essere considerati nel computo dell’attivo di liquidazione da destinare al soddisfacimento dei creditori privilegiati e, quindi, nemmeno nella valutazione del trattamento che sarebbe riservato ai crediti tributari in tale ipotesi.
Un indirizzo per così dire “intermedio” è stato affermato dal Tribunale di Milano con l’articolata e approfondita sentenza del 5 dicembre 2018, il quale ha affermato che “i flussi della continuità, allorquando siano generati da una prosecuzione aziendale resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, non possono ritenersi assoggettati al rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, per la semplice ragione che detti flussi, nella prospettiva fallimentare, semplicemente non esisterebbero. Un conto è che i flussi della continuità siano comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, giacché in tal caso appare assai complesso condurre i suddetti flussi al di fuori della regola dell’art. 2741 c.c.; un altro – ben diverso – conto è che tali flussi siano resi possibili da una prosecuzione aziendale resa a propria volta possibile unicamente dall’apporto di risorse esterne da parte di un terzo. In tal caso, invero, ben può affermarsi che tali flussi, in quanto generati da una finanza esterna, ne ereditino i caratteri, e risultino, quindi, liberamente distribuibili, sol che si consideri che, in assenza dell’apporto del terzo, detti flussi non esisterebbero, e conseguentemente le cause di prelazione – in primis il privilegio generale mobiliare – non avrebbero oggetto alcuno su cui esercitarsi”. In sostanza, i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività economica, la quale a propria volta è stata resa possibile unicamente per effetto dell’apporto di un soggetto terzo, sono anch’essi classificabili come “finanza esterna”, per il semplice fatto che non esisterebbero in assenza di tale apporto.
In proposito è stato peraltro osservato[11] che, a differenza del caso concreto cui si riferiva la sentenza da ultimo citata, “è spesso tutt’altro che immediato determinare se la prosecuzione dell’attività aziendale sia resa possibile esclusivamente da apporti esterni, o se invece gli apporti esterni la facilitino e la supportino, senza che una qualche prosecuzione possa essere tassativamente esclusa in loro assenza. In altri termini, può spesso rivelarsi assai complicato ricondurre la continuità aziendale al solo apporto da parte di terzi, tanto più che in numerosi casi l’apporto di terzi è funzionale (anche) a una migliore proposta ai creditori e, quindi, ad aumentare la probabilità della sua approvazione”. Tuttavia, quando la continuazione dell’attività d’impresa è impedita dall’assenza di disponibilità finanziarie, è difficile negare che il presupposto imprescindibile per la sua ripresa è rappresentato dal reperimento delle relative risorse finanziarie di ammontare necessariamente significativo.

4. Natura e utilizzo dei flussi di cassa secondo la circolare n. 34/E/2020

Con la circolare n. 34/E del 29 dicembre 2020, l’Agenzia delle entrate ha rettificato il tiro, affermando che, nonostante la natura “endogena” dei flussi di cui trattasi (che è stata comunque dalla stessa ribadita), essi non concorrono a formare il patrimonio dell’impresa in caso di liquidazione da assumere ai fini della comparazione di cui si è detto. Questa precisazione è assai opportuna, perché ciò che l’art. 182-ter richiede di comparare è chiaro: il pagamento offerto con il soddisfacimento discendente dall’alternativa liquidazione fallimentare, per quantificare il quale il professionista indipendente deve considerare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza tener conto di scenari non realizzabili in tale circostanza, qual è appunto quello della prosecuzione dell’attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo ma non nel fallimento, e dunque senza considerare i flussi suscettibili di essere generati solo da tale attività.
Quanto ai criteri di ripartizione del ricavato della liquidazione del patrimonio del debitore, l’Agenzia delle entrate ha affermato, con la medesima circolare, che la distribuzione delle somme provenienti dai flussi generati dalla continuità aziendale deve comunque avvenire “in modo tale da assicurare un trattamento non deteriore della pretesa tributaria rispetto ai creditori concorrenti”; pertanto, pur continuando ad aderire all’indirizzo che esclude la natura di “finanza esterna” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività d’impresa (e quindi la possibilità di destinarli liberamente), pare orientarsi verso l’applicazione della tesi della “priorità relativa” circa la ripartizione del “surplus concordatario”.
Sulla base degli indirizzi espressi dall’Agenzia delle entrate, ai fini dell’approvazione della proposta di transazione fiscale formulata nell’ambito di un concordato preventivo in continuità, pur essendo i suddetti flussi da qualificare come “endogeni” e dunque non potendo essere liberamente attribuiti ai creditori:
– la comparazione, fra il soddisfacimento dei debiti fiscali offerto con la proposta di transazione fiscale e quello alternativamente conseguibile dal Fisco mediante la liquidazione del patrimonio dell’impresa, può essere eseguita senza far concorrere tali flussi alla formazione del patrimonio oggetto di liquidazione;
– è sufficiente prevedere un trattamento dei crediti fiscali più vantaggioso di quello destinato ai crediti privilegiati di grado inferiore e a quelli chirografari, purché sia al tempo stesso migliore rispetto al soddisfacimento che tali crediti riceverebbero mediante l’alternativa liquidazione, e non è necessario stabilirne l’integrale pagamento fino a concorrenza del valore del patrimonio comprensivo di tali flussi (peraltro il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza prevede, con decorrenza da quando entrerà in vigore, che l’alternativa da considerare sarà costituita anche a questo riguardo dalla liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice).
In sintesi l’Agenzia delle entrate considera i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività finanza endogena ma, ciò nonostante, considera distribuibile ai creditori il ricavato della liquidazione secondo il criterio della priorità relativa.
Ad avviso di chi scrive, per i motivi sopra esposti, l’approccio dovrebbe essere esattamente l’opposto, ovverosia l’attribuzione ai creditori dovrebbe avvenire secondo il criterio della priorità assoluta e i flussi dovrebbero essere considerati finanza esogena, con la duplice conseguenza che, da un lato, ogni creditore privilegiato dovrebbe poter essere soddisfatto solo dopo che quelli assistiti da gradi di privilegio superiori sono stati completamente pagati e, dall’altro lato, le somme rivenienti dai flussi prodotti dalla continuità possono essere liberamente destinate al soddisfacimento dei creditori senza dover rispettare l’ordine delle cause di prelazione.
La posizione dell’Agenzia delle entrate circa la natura “endogena” dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività trae origine dai principi (sopra richiamati) secondo cui (i) la prosecuzione dell’attività d’impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (ex art. 2740 c.c.) e (ii) non sarebbe consentito azzerare mediante il concordato il rispetto delle legittime cause di prelazione (ex art. 2741 c.c.). In realtà, come dapprima evidenziato, tale posizione momento;
– la verifica della violazione o meno dell’ordine delle cause di prelazione deve essere quindi eseguita con riferimento alla predetta data, perché ciò che è valutabile ai fini della capienza è solo il patrimonio del debitore esistente in tale momento, e non quello che residuerà, dopo vari anni e vari interventi altrimenti inattuabili. Infatti, senza concordato il risanamento non sussisterebbe per nulla, o avrebbe quanto meno una ben diversa consistenza, e certamente non sussisterebbero in tal caso i flussi generabili dalla continuità dell’attività, che è incompatibile con la liquidazione;
– la natura “esogena” di un’entrata va ricercata nel maggior valore derivante dall’attuazione delle azioni previste nel piano concordatario di risanamento e comprende dunque anche quello generato dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa.
La tesi su cui si fonda l’indirizzo espresso dall’Agenzia circa i criteri di ripartizione del patrimonio del debitore è stata inoltre smentita dalla Corte di cassazione con la citata sentenza n. 10884/2020, secondo cui nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale può trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore. Infatti, come dapprima già evidenziato, la possibilità di sottoporre a falcidia, a beneficio di altri creditori, crediti garantiti da privilegio generale richiede necessariamente che: o i beni hanno un valore eccedente i crediti garantiti, e allora questi devono essere soddisfatti integralmente, o i beni hanno un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non possono essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore.
La posizione cui è alla fine pervenuta l’Agenzia delle entrate con la circolare n. 34/E/2020, secondo cui i flussi derivanti dalla prosecuzione dell’attività sono da considerare finanza endogena ma, ciò nonostante, sono liberamente distribuibili a favore dei creditori (a condizione che ai crediti erariali privilegiati non sia offerto un trattamento deteriore rispetto a quello previsto per i crediti ad essi postergati e ai crediti erariali chirografari sia garantito il trattamento più favorevole rispetto a quello applicato ai crediti chirografari) si scontra, peraltro, anche con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività economica (se ed in quanto qualificabili come “finanza endogena”) andrebbero invece necessariamente computati nel calcolo del valore di realizzo del patrimonio aziendale derivante dalla liquidazione e non potrebbero perciò essere destinati al soddisfacimento di un creditore di rango inferiore in assenza dell’integrale soddisfacimento dei creditori di grado poziore. Tuttavia la distribuzione dei flussi di cassa in commento secondo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate dovrebbe consentire il superamento di tale conflitto in presenza dell’approvazione della proposta di transazione fiscale da parte della stessa Amministrazione finanziaria, sostanziandosi tale adesione in una “riduzione” del credito erariale giustificata dalla convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidazione. In assenza di voto favorevole o di adesione alla transazione fiscale, invece, la proposta concordataria (che la comprende) potrebbe essere ritenuta non omologabile da chi aderisce al predetto orientamento giurisprudenziale, in quanto contrastante con gli effetti derivanti dal considerare i flussi finanza endogena e dall’adozione, al tempo stesso, della tesi della priorità assoluta. Ciò non di meno, tale conflitto potrebbe invero essere superato in maniera naturale qualora l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter (che impone il divieto di trattamento deteriore e il principio di trattamento più favorevole con riferimento, rispettivamente, ai crediti tributari privilegiati e ai crediti tributari chirografari) venga inteso quale implicita deroga alla tesi della priorità assoluta e quindi quale affermazione della regola della priorità relativa limitatamente ai crediti erariali, indipendentemente dall’utilizzo di tale tesi con riguardo agli altri crediti. Ciò, infatti, equivarrebbe ad affermare che l’ordinamento giuridico considera compatibile la soddisfazione parziale dei crediti tributari privilegiati, nonostante la capienza dell’attivo distribuibile (purché essi non siano trattati in maniera deteriore rispetto a quelli di rango inferiore)[12], in virtù della “specialità” delle norme disciplinanti il trattamento dei crediti erariali (e contributivi).
V’è infine da rilevare come non manchi chi ritiene generalmente “libera” la distribuzione dei flussi di cassa generati dalla continuazione dell’attività (nonostante la loro natura endogena) in considerazione dell’esdebitamento discendente, ai sensi dell’art. 184 l.f., dall’omologazione del concordato. Questa corrente di pensiero rileva al riguardo che, “se, per effetto dell’omologazione, la pretesa di tutti i creditori originari viene sostituita con la nuova e diversa obbligazione concordataria assunta dal debitore con la proposta, ne consegue che anche il diritto di prelazione dei creditori privilegiati cessa di svolgere una propria funzione con l’apertura della procedura. Poiché il privilegio ha natura accessoria rispetto al credito cui accede, anch’esso si estingue per effetto della novazione e sostituzione dell’obbligazione originaria, rimanendo poi irrilevante ai fini che qui interessano la qualificazione della fattispecie in termini di estinzione o inesigibilità del credito nei confronti del debitore originario, e fatta salva la regola dell’art. 184, comma 1, l.f. (…). A partire dall’omologazione, pertanto, i creditori anteriori diventano tutti creditori aventi medesimo rango, che si traduce nell’identico diritto ad ottenere l’adempimento della nuova obbligazione concordataria, non potendosi più distinguere (salvo l’ipotesi di risoluzione o annullamento del concordato) tra privilegiati e chirografari (…) Le regole di distribuzione del patrimonio del debitore e la priorità (assoluta) attribuita ai privilegiati rispetto ai chirografari dovrebbero considerarsi operanti nei concordati solo con riferimento al patrimonio esistente al momento della presentazione della domanda, ma non con riferimento al patrimonio posteriore, che comprende anche gli eventuali risultati positivi derivanti dalla prosecuzione dell’attività d’impresa”[13].
Sussistono dunque margini per evitare, pur in presenza della assunzione della natura endogena dei flussi contestualmente all’adozione (per la generalità dei crediti privilegiati) della tesi della priorità assoluta, il conflitto sopra evidenziato dovuto alla posizione assunta dall’Agenzia delle entrate in ordine alla natura endogena dei flussi di cui trattasi, sempreché sussistano i presupposti dell’adesione alla proposta transattiva (spontanea o disposta dal Tribunale).

[1] “Destinazione dei flussi di cassa e gestione dei conflitti d’interessi nel concordato preventivo con continuità aziendale”, ivi, n. 8-9/2019, pag. 1099; P.F. Censoni, “Il concordato preventivo”, in A. Jorio – B. Sassani (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali, Milano, 2016, pag. 152; A. Rossi, “Le proposte ‘indecenti’ nel concordato preventivo”, in Giurisprudenza commerciale, n. 2/2015, I, pag. 334; L. Stanghellini, “Il concordato con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, Torino, 2014, pag. 1240; S. Bonfatti, “La disciplina dei creditori privilegiati nel concordato preventivo con continuità aziendale”, in Società, banche e crisi d’impresa, Torino, 2014, pag. 1240.

[2] Cfr., ex multis, G. Terranova, “I concordati in un’economia finanziaria”, in Diritto fallimentare, 2020, I, pag. 20; G. D’Attorre, “Concordato con continuità ed ordine delle cause di prelazione”, in Giurisprudenza commerciale, n. 1/2016, I, pag. 43; F. Guerrera, “Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società”, in Diritto fallimentare, 2010, I, pag. 720; G. Racugno, “Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e transazione fiscale. Profili di diritto sostanziale”, in V. Buonocore – A. Bassi (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, I, CEDAM, 2010, pag. 497; P. Catalozzi, “La falcidia concordataria dei crediti assistiti da prelazione”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 9/2008, pag. 1014.

[3] Sulla base della definizione enunciata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, rientrano tipicamente nella definizione di “finanza esterna” gli apporti finanziari di soggetti terzi che non comportano né un incremento dell’attivo patrimoniale tramite il quale soddisfare i crediti privilegiati, né un aggravio del passivo patrimoniale stante l’assenza del vincolo di restituzione (si tratta, in sostanza, di attribuzioni a fondo perduto o “liberalità”). Per i giudici di legittimità, infatti, “l’intangibilità dell’ordine delle cause di prelazione trova il suo limite nel patrimonio del debitore, e non vieta al terzo di condizionare il suo apporto finanziario alla soddisfazione preferenziale di crediti posposti”.

[4] Così testualmente Trib. Milano, Decreto 15 dicembre 2016. In senso analogo si vedano anche App. Venezia, 12 maggio 2016, e App. Torino, 16 aprile 2019 (in quest’ultima pronuncia è stato osservato che addossare al creditore privilegiato il rischio conseguente alla continuazione dell’attività senza attribuzione delle potenzialità da essa derivanti comporterebbe l’imposizione di un patto leonino). In dottrina si vedano ex multis F. Platania, “L’ordine di pagamento dei creditori ipotecari e privilegiati nel concordato in continuità diretta”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 12/2020, pag. 1502; G. D’Attorre, “La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule”, ivi, n. 8-9/2020, pag. 1078; D. Galletti, “I proventi della continuità, come qualsiasi surplus, non sono liberamente distribuibili”, in www.il fallimentarista.it del 16 marzo 2020.

[5] Il concetto di “nuova finanza” risulta infatti più ampio di quello di “finanza esterna”, comprendendo le nuove risorse finanziarie previste nel piano per sostenere la prosecuzione dell’attività e che non rientrano in questa seconda nozione, quali per esempio i prestiti erogati da terzi. Per scongiurare il rischio di considerare tutto ciò che deriva dalla continuità aziendale come risorsa esterna e di scardinare così la regola della par condicio creditorum, bisognerebbe “considerare come risorse esterne solo quelle che non derivano geneticamente dal patrimonio dell’impresa che accede al concordato preventivo, ma sono il frutto di interventi di terzi”, non potendo perciò rientrare in detta nozione “l’incasso di crediti né gli ‘utili’ della gestione conseguiti nel periodo di esecuzione del piano di concordato” (così M. Arato, “Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 7/2019, pag. 862).
6 Cfr. Corte App. Venezia, 19 luglio 2019; Trib. Milano, 5 dicembre 2018; Trib. Massa, 27 novembre 2018; Trib. Milano, 8 novembre 2016; Trib. Prato, 7 ottobre 2015; Trib. Treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; Trib. Rovereto, 13 ottobre 2014; Trib. Torino, 7 novembre 2013; Trib. Saluzzo, 13 maggio 2013. Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili – Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Documento di ricerca “Il trattamento dei crediti tributari nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione” (di P. Rossi), 20 febbraio 2019, pagg. 10 e 11; E. Stasi, “Transazione fiscale nelle procedure concorsuali”, in www.il fallimentarista.it del 9 maggio 2019, pag. 18; M. Terenghi, “Finanza esterna, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 3/2019, pag. 387; S. Guarino, “Concordato con continuità, surplus e cause legittime di prelazione”, in Corr. Trib., n. 38/2018, pag. 2902.

[7] Nella citata circolare n. 16/E/2018 è richiamato un passaggio della citata sentenza n. 9373/2012, con cui la Cassazione si è occupata della necessità di rispettare o meno la regola di cui all’art. 160, comma 2, l.f. con riferimento all’apporto finanziario del terzo (che costituisce la fattispecie tipica di “finanza esterna”). I giudici di legittimità hanno al riguardo ritenuto che “l’apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo Stato patrimoniale della società”, ovvero a condizione che l’intervento finanziario sia utilizzato per pagare direttamente i debiti della società senza comportare una variazione nell’attivo e nel passivo del debitore.

[8] In proposito si vedano S. Pacchi, “La liquidazione dell’attivo con particolare riferimento all’azienda”, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, n. 1/2016, pag. 1 ss.; F. Fimmanò, “La vendita fallimentare dell’azienda”, in Contratto e impresa, n. 2/2007, pag. 530.

[9] Al riguardo, come rilevato nelle “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, elaborato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e dalla Società Italiana dei Docenti di Ragioneria ed Economia Aziendale, “Il professionista deve tenere conto della reale situazione in cui versa l’azienda o il ramo di azienda che si intende cedere o affittare o conferire” e nel caso di affitto d’azienda “deve considerare l’effettiva capacità di creazione dei flussi finanziari attesi nell’orizzonte interessato, senza considerare i benefici apportati dalla possibile gestione del terzo cessionario o affittuario. L’affitto di azienda deve essere valutato considerando le finalità conservative e di mantenimento dell’efficienza dei complessi aziendali, nonché dei costi di manutenzione ordinari e straordinari che il terzo potrebbe essere tenuto a sopportare o assumere a proprio”.

[10] Poiché l’unica soluzione alternativa è quella della liquidazione fallimentare, il valore dell’attivo da liquidare corrisponde sostanzialmente al prezzo ottenibile dalla cessione dell’azienda in base all’esito della procedura competitiva. Cfr. S. Ambrosini, “Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori”, in blog.ilcaso.it del 25 aprile 2018.

[11] Cfr. A. Guiotto, cit., pag. 1100.

[12] Cfr. in tal senso G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio …, cit., pag. 1075, nota n. 9.

[13] Così testualmente G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio …, cit., pag. 1078. In questo solco interpretativo si pongono anche A. Guiotto, cit., pag. 1098, nonché M. Fabiani, La struttura finanziaria del concordato preventivo, Bologna, 2019, pag. 218, secondo il quale, una volta determinato il perimetro della garanzia patrimoniale, i profitti derivanti dalla prosecuzione dell’attività sarebbero liberamente disponibili, senza necessità di rispettare l’ordine delle prelazioni.