di Giulio Andreani, Alessandra Cavina e Nicola Laurenzano

Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi non prevede alcuna disposizione in merito agli effetti prodotti dal concordato preventivo sul consolidato fiscale, ma, ai sensi del D.M. 1° marzo 2018, la “liquidazione giudiziale” costituisce causa di interruzione della tassazione di gruppo; essendo tale espressione a-tecnica, poiché la legge non disciplina alcun istituto così definito (tranne, con evidente diverso significato, il Codice della crisi d’impresa non ancora in vigore), l’Agenzia delle entrate ha precisato che in essa rientra il concordato preventivo “liquidatorio”. Tuttavia, ai fini della interruzione del regime di consolidato fiscale, ciò che rileva non è tanto la qualificazione della procedura concorsuale discendente dalla legge fallimentare, la quale stabilisce regole diverse a seconda che il concordato sia “liquidatorio” o meno, quanto l’effetto che la procedura genera sulla tassazione dell’impresa debitrice assunto dal legislatore per disciplinare la fattispecie, costituito dall’estinzione dell’impresa assoggettata a procedura concorsuale. Tale effetto, pur essendo generalmente riconducibile a una procedura tipica, che è quella liquidatoria, può essere prodotto anche da una procedura diversamente qualificata ai fini della legge fallimentare, così come può non essere generato da una procedura prevalentemente liquidatoria.

 

1. Premessa

La disciplina fiscale del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e dell’amministrazione straordinaria dipende dal tipo di procedura e, nonostante la laconicità delle disposizioni che formano tale disciplina, si può affermare che essa si fonda essenzialmente sulla distinzione tra procedure liquidatorie e procedure che comportano la prosecuzione dell’attività da parte dell’impresa debitrice. Lo si desume con riguardo a talune fattispecie dalla stessa legge, come ad esempio relativamente al trattamento delle sopravvenienze da esdebitamento regolato dall’art. 88 del TUIR, e, in merito ad altre fattispecie, dall’interpretazione fornita, a fronte di norme veramente scarne e imprecise, dall’Amministrazione finanziaria. A tale principio non si sottraggono le disposizioni introdotte per prevedere le conseguenze che la crisi d’impresa riverbera sul regime del consolidato fiscale, anche se non è ancora stata adeguatamente delineata la reale portata della suddetta distinzione con riferimento agli effetti prodotti, sulla prosecuzione della tassazione di gruppo, dall’assoggettamento alla procedura di concordato preventivo di uno o più dei soggetti aderenti al predetto regime.

2. Il quadro normativo e la prassi amministrativa relativi al regime della tassazione di gruppo

In generale, gli effetti prodotti sul regime di tassazione di gruppo dall’ammissione ad una procedura concorsuale di una società partecipante al consolidato fiscale, di cui agli artt. 117 e ss. del TUIR, sono disciplinati dall’art. 126, comma 2, del TUIR e dagli artt. 4, comma 1, lett. b), e 13, comma 1, del D.M. 9 giugno 2004[1] (entrambi riprodotti nel D.M. 1° marzo 2018[2]).

In base a tali disposizioni:

  • in caso di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa, l’esercizio dell’opzione per il regime di tassazione di gruppo non è consentito e, se già avvenuto, cessa dall’inizio dell’esercizio in cui interviene la dichiarazione del fallimento o il provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa (art. 126, comma 2, del TUIR);
  • l’opzione per il regime di consolidato fiscale è inibita alle società assoggettate all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza[3] (art. 4, comma 1, lett. b), D.M. 1° marzo 2018);
  • l’interruzione della tassazione di gruppo si verifica anche nel caso di «liquidazione giudiziale» (art. 13, comma 1, D.M. 1° marzo 2018).
  • L’Agenzia delle Entrate, con la Circ. n. 53/E/2004 e con successivi interventi, ha avuto modo di precisare che:
  • in merito alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, l’inibizione all’esercizio dell’opzione opera esclusivamente nei confronti delle imprese oggetto di programmi di cessione delle attività e, dunque, con riferimento a una procedura avente una «finalità eminentemente liquidatoria» ovvero «finalizzata all’integrale liquidazione del complesso produttivo» e «non anche nei confronti delle società coinvolte nei programmi di risanamento – finalizzati alla ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa – (…)» (Circ. n. 53/E/2004, par. 2.2.2; cfr. Ris. n. 115/E/2002 e n. 64/E/2011);
  • in merito alla possibilità di aderire al consolidato fiscale, «La procedura di concordato non osta (…) all’ingresso nel consolidato, non essendo specificatamente prevista da alcune delle disposizioni in materia» (Comunicato Stampa dell’Agenzia delle Entrate del 20 dicembre 2004, avente ad oggetto “I chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate sulla disciplina del consolidato nazionale”);
  • con l’espressione “liquidazione giudiziale” (espressione a-tecnica, che si rinviene nell’art. 13 del D.M. 9 giugno 2004, ma che è priva di una definizione legislativa), si è inteso far riferimento alla liquidazione delle attività che, nell’ambito delle procedure concorsuali, si svolge sotto «una qualche forma di controllo dell’autorità giudiziaria», con «finalità liquidatoria (e non conservativa della continuità aziendale)», ovvero «senza l’obiettivo di “ricreare le condizioni necessarie per la continuazione dell’esercizio dell’impresa”» (Risposta a interpello n. 956-223/2019).

Pertanto, in base a tale indirizzo, l’espressione “liquidazione giudiziale” comprende la “fase liquidatoria” che caratterizza l’attuazione del concordato preventivo con cessione dei beni, dal che l’Agenzia delle Entrate ha fatto ulteriormente discendere che l’interruzione del consolidato fiscale interviene «ogniqualvolta il concordato preventivo assuma natura meramente liquidatoria».

 

3. Caratteristiche degli istituti di natura concorsuale interruttivi del regime di tassazione di gruppo

Ciò posto, allo scopo di stabilire se, per effetto dell’assoggettamento alla procedura di concordato preventivo di una società partecipante al consolidato fiscale, quest’ultimo si interrompe, occorre chiedersi se, a tal fine, rileva la mera qualificazione nominalistica della procedura stessa – conseguente all’applicazione della legge fallimentare (approccio che potremmo definire “formalistico”), distinguendo, nel caso, tra i diversi tipi di procedura – ovvero se ciò che rileva ai fini interruttivi sia la situazione in concreto che si viene a determinare, cui ha fatto implicito riferimento il legislatore, laddove ha previsto le norme di cui sopra (approccio “sostanzialistico”); situazione in concreto che, di regola, è quella evocata dal nomen iuris delle procedure concorsuali sopra richiamate, ma talora non vi è questa automatica corrispondenza, potendo, ciascuna di dette procedure, dare luogo a situazioni differenti (v. infra).

È di tutta evidenza, allora, che l’automatica applicazione (sulla base del mero nomen iuris della procedura) delle disposizioni in materia di interruzione del consolidato fiscale potrebbe determinare effetti non voluti dal legislatore, contrastanti con la ratio delle norme fiscali – a quel punto solo formalmente applicate – che tale interruzione prevedono.

Ad avviso di chi scrive, l’approccio “sostanzialistico” sopra accennato appare il più appropriato, per le ragioni sistematiche e teleologiche di seguito esposte.

È, innanzi tutto, utile ricordare che la distinzione tra procedure concorsuali “di risanamento” e procedure concorsuali “liquidatorie” ha costantemente assunto rilievo al fine di individuare il regime fiscale applicabile alla procedura stessa: si pensi alle norme recate dall’art. 88 del TUIR in materia di detassazione delle sopravvenienze da esdebitamento, per le quali è previsto un differente trattamento, a seconda che la sopravvenienza sia realizzata nell’ambito di un concordato “di risanamento” piuttosto che “liquidatorio” (v. infra); oppure alla tassazione delle plusvalenze, di cui l’art. 86, comma 5, del TUIR dispone l’esclusione dalla formazione del reddito ove siano realizzate nel concordato preventivo “con cessione dei beni”.

Ciò che realmente rileva ai predetti fini non è tanto il tipo formale di procedura concorsuale, bensì la situazione concreta assunta dal legislatore quale presupposto fattuale della norma “interruttiva” introdotta, di regola (ma non necessariamente) evocata dal nomen iuris della procedura.

Si intende dire che il diverso trattamento fiscale adottabile – con riguardo alle sopravvenienze e alle plusvalenze, così come alla interruzione del consolidato fiscale – discende dagli effetti che la norma oggetto di applicazione produce, a seconda della situazione in cui deve essere applicata.

Così, con riferimento alle sopravvenienze attive da esdebitamento, il citato art. 88 del TUIR, al comma 4-ter, nelle procedure “di risanamento”, ne prevede la detassazione limitatamente all’importo che eccede le perdite fiscali, mentre, nel concordato “liquidatorio”, la detassazione è accordata in misura integrale (cioè senza alcuna limitazione).

Tale distinzione non dipende, però, dal tipo di procedura in sé, così come qualificata a fini concorsuali, ma dagli effetti che tale detassazione produce, a seconda della situazione concreta in cui trova applicazione.

Con il comma 4-ter dell’art. 88 del TUIR[4], il legislatore ha inteso evitare che il contribuente venisse  a godere di un doppio beneficio, costituito, da un lato, dalla detassazione delle sopravvenienze attive – in assenza della quale la ristrutturazione dei debiti sarebbe più onerosa e quindi troppo difficile – e, dall’altro lato, dalla conservazione delle perdite fiscali esistenti, che si tradurrebbe nella detassazione anche di futuri redditi in virtù della possibilità di compensarli (ex art. 84 del TUIR) con le perdite pregresse conservate.

Ecco, allora, che nel concordato “di risanamento” si rende necessario “bruciare” le perdite fiscali fino a concorrenza dell’importo delle sopravvenienze, posto che, l’effetto naturale di tale procedura concorsuale conservativa è che l’attività di impresa (risanata) venga proseguita; sicché l’impresa ben può produrre redditi futuri che, in assenza di una simile limitazione, potrebbero beneficiare di una maggiore compensazione con perdite fiscali pregresse, il che darebbe luogo proprio a quel doppio beneficio che il legislatore ha mostrato di voler evitare.

Un’analoga esigenza non sussiste, invece, nel concordato “liquidatorio” – da cui, come normalmente accade, discendano la liquidazione e la cessazione (cioè l’estinzione) dell’impresa – dal momento che il suo naturale epilogo è (di regola) l’estinzione della società e, quindi, la cessazione dell’impresa, circostanza che esclude ex se la produzione di redditi futuri suscettibili di essere (maggiormente) compensati (ex art. 84 del TUIR) con le perdite fiscali pregresse conservate.

Ciò, tuttavia, è vero solo se si assume che l’impresa debitrice venga estinta; qualora, invece, continuasse a esistere, potrebbe riavviare un’attività e conseguire in futuro nuovi redditi, che potrebbero essere compensati con le perdite pregresse. Pertanto, in questo diverso caso – nel caso, cioè, del concordato preventivo “liquidatorio” cui non consegua, in realtà, l’estinzione dell’impresa debitrice – se la norma fiscale fosse da interpretare assumendo automaticamente la qualificazione della procedura rilevante ai fini fallimentari, se ne farebbe un uso distorto e non conforme alla sua ratio, perché l’impresa beneficerebbe sia della detassazione integrale delle sopravvenienze, sia del riporto delle perdite e, dunque, nonostante il chiaro scopo della norma stessa, fruirebbe di quel doppio beneficio che, in realtà, l’art. 88 del TUIR contrasta.

Analogamente, in caso di concordato “in continuità”, ma indiretta o esterna, che prevede la cessione o il conferimento, in una o più società, dell’azienda in esercizio, nonostante si tratti di un concordato che ai fini della legge fallimentare viene qualificato come “in continuità” e non “liquidatorio”, la situazione che si verifica sotto il profilo fiscale è del tutto corrispondente a quella di un concordato liquidatorio, nel senso che – come ha ritenuto il Ministero dell’Economia e delle Finanze con la risposta alla interrogazione parlamentare n. 5-00047 del 2018 – anche il concordato “in continuità” può provocare la cessazione dell’impresa, nel qual caso le sopravvenienze possono essere detassate integralmente, «dal momento che non potrà verificarsi quell’utilizzo futuro delle perdite pregresse che la norma vuole scongiurare».

Appare chiaro, in definitiva, che ciò che rileva, con riguardo al regime fiscale applicabile, non è la qualificazione formale della procedura (concordato “in continuità” ovvero “liquidatorio”), ma la situazione concreta generata dalla procedura, che, per quanto attiene alla disciplina del citato art. 88 del TUIR, (i) con riferimento alla detassazione integrale delle sopravvenienze, deve implicare la cessazione dell’attività ovvero l’estinzione dell’impresa debitrice e, quindi, la liquidazione dell’impresa stessa – anziché la mera liquidazione del suo patrimonio – cui consegue l’impossibilità di conseguire redditi futuri (fermo restando che, nella generalità dei casi, tale situazione è quella prodotta naturaliter dal concordato preventivo “liquidatorio”); (ii) con riferimento alla detassazione limitata delle sopravvenienze, deve verificarsi la prosecuzione dell’attività e la possibilità di realizzare redditi futuri (circostanza, di regola, ricorrente con il concordato preventivo “di risanamento”, che giustifica una limitazione della detassazione), salvo il caso di continuità indiretta priva di prosecuzione dell’impresa.

Considerazioni analoghe valgono anche per la norma di cui all’art. 86, comma 5, del TUIR, che esclude la tassazione delle plusvalenze in caso di concordato preventivo “con cessione dei beni”.

Tale disposizione, infatti – come ha opportunamente precisato l’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 462/2019 – è applicabile non tanto per il fatto che si tratti di un concordato “con cessione dei beni”, ma se e in quanto, a seguito della cessio bonorum, «dopo il concordato non ci sia più esercizio di impresa» (in senso analogo si veda anche la risoluzione n. 29/E del 1° marzo 2004). Tale esclusione si fonda sul presupposto che, per effetto dello spossessamento provocato dalla cessio bonorum, non sia l’impresa debitrice a beneficiare del reddito derivante dalla vendita dei beni, se non per l’eventuale residuo attivo, ma i suoi creditori, difettando – ai fini della tassazione in capo a essa di tale reddito – il necessario presupposto costituito dal possesso dello stesso da parte del soggetto passivo d’imposta: ciò, in quanto quest’ultimo realizza un arricchimento, e dunque un reddito tassabile, solo in virtù dell’eventuale incremento di patrimonio, generato dalle plusvalenze, che residua dopo l’integrale soddisfacimento di suoi creditori.

Per questi motivi, in entrambi i casi sopra richiamati, la detassazione senza limitazioni delle sopravvenienze da esdebitamento e delle plusvalenze da cessio bonorum presuppone e richiede la definitiva cessazione dell’impresa (più che il conseguimento di tali componenti nell’ambito di un concordato “liquidatorio”), vale a dire la liquidazione dell’impresa e non la liquidazione del solo suo patrimonio.

È vero che la cessazione dell’impresa generalmente costituisce una conseguenza del concordato “liquidatorio” e ciò giustifica la lettera delle norme recate dall’art. 88 e dall’art. 86; ne discende, tuttavia, che la predetta detassazione compete nel contesto di un concordato preventivo “liquidatorio”, in quanto ne consegua tipicamente la cessazione dell’impresa. Non può, viceversa, competere qualora, nonostante il ricorso a tale procedura liquidatoria, l’attività dell’impresa comunque prosegua e sia atta a generare redditi futuri.

Le norme che prevedono le detassazioni di cui trattasi non possono, infatti, essere applicate in contrasto con la loro ratio ed è quest’ultima a dover guidare l’interprete nella loro applicazione.

Il medesimo criterio interpretativo che abbiamo visto trovare applicazione con riguardo al regime delle sopravvenienze e delle plusvalenze – il quale fa leva sulla ratio delle disposizioni da applicare ed esclude il rilevo automatico di formali qualificazioni previste per altri fini – deve essere utilizzato anche in merito alla individuazione degli effetti che l’assoggettamento di una società a una procedura concorsuale produce sul regime di consolidato fiscale cui tale società ha precedentemente aderito.

A questo fine, occorre pertanto chiedersi qual è la ratio delle disposizioni recate dall’art. 126 del TUIR e dagli artt. 4 e 13 del D.M. 1° marzo 2018 sopra richiamate e quindi, nella sostanza, perché il legislatore abbia previsto che la tassazione di gruppo debba interrompersi a seguito del fallimento, dell’amministrazione straordinaria e della “liquidazione giudiziale”[5].

Come si è già ricordato, tali norme prevedono l’interruzione in caso di fallimento, di liquidazione coatta amministrativa, di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza e di «liquidazione giudiziale», cioè di concordato preventivo “liquidatorio”, con la precisazione che – come ha affermato l’Agenzia delle Entrate con la Circ. n. 53/E/2004 – l’amministrazione straordinaria costituisce causa di interruzione della tassazione di gruppo esclusivamente con riferimento al caso in cui la società in stato di insolvenza sia oggetto di un programma di cessione delle sue attività con finalità liquidatorie, con riguardo al quale trovano applicazione, giusta quanto chiarito dall’Agenzia stessa con le già richiamate risoluzioni n. 115/E/2002 e n. 64/E/2011, le medesime disposizione fiscali di cui all’art. 183 del TUIR che disciplinano il fallimento.

Non costituisce, viceversa, causa di interruzione del regime di tassazione di gruppo l’amministrazione straordinaria di una grande impresa che sia oggetto di un programma di risanamento, con finalità di ristrutturazione finanziaria ed economica.

Non è difficile notare che tutte queste cause di interruzione del consolidato fiscale presentano un unico fattor comune: la liquidazione dell’impresa debitrice e la cessazione dell’attività da essa esercitata, cioè un evento cui il legislatore – come si è sopra rilevato – ha fatto riferimento anche per disciplinare diversamente, a seconda delle situazioni, la detassazione delle sopravvenienze da esdebitamento e delle plusvalenze da cessio bonorum.

Ciò che rileva, dunque, ai fini della predetta interruzione, più degli eventi in sé e per sé ivi richiamati (fallimento, amministrazione straordinaria e liquidazione giudiziale), è la circostanza che, a seguito di tali eventi, l’impresa debitrice cessi la propria attività, analogamente a quanto si è precedentemente visto con riguardo alla detassazione delle sopravvenienze e delle plusvalenze.

Dall’insieme delle disposizioni sopra richiamate emerge infatti che l’interruzione interviene quando l’attività del soggetto aderente al consolidato diventa incompatibile con quella ordinaria delle imprese che vi hanno aderito e non è revocabile in dubbio che una siffatta situazione si verifica per effetto della liquidazione dell’impresa sottoposta al controllo giudiziario e che, al tempo stesso, non si verifica se, nonostante la vendita del patrimonio aziendale, l’impresa non venga liquidata, ma, al contrario, prosegua regolarmente la propria attività.

Nessuna interruzione della tassazione di gruppo può, dunque, verificarsi quando l’attività dell’impresa debitrice, pur riducendosi, non venga cessata, bensì prosegua, ancorché producendo volumi notevolmente inferiori, sotto il profilo quantitativo, a quelli precedentemente realizzati.

Queste conclusioni rispettano la ratio delle disposizioni di cui trattasi e presentano il pregio della sistematicità, atteso che ben si coniugano con la disciplina che il legislatore ha previsto per la detassazione di sopravvenienze e plusvalenze nell’ambito della crisi d’impresa, componendo un quadro normativo omogeneo e coerente.

Occorre, peraltro, osservare che la liquidazione volontaria dell’impresa non costituisce, di per sé, causa di interruzione del regime di consolidato fiscale cui l’impresa oggetto di liquidazione abbia precedentemente aderito[6], pur essendo, evidentemente, finalizzata alla cessazione dell’attività esercitata dall’impresa e all’estinzione di quest’ultima.

Ancora una volta si dimostra come il fattore che giustifica l’interruzione del consolidato fiscale non possa essere il mero e formale avvio di un procedimento liquidatorio dell’impresa, ma debba necessariamente essere integrato da qualche altro fattore.

Non v’è dubbio che il presupposto principale sia certamente l’evento che dà corso alla liquidazione dell’impresa (si badi: dell’impresa e non soltanto del suo patrimonio).

Esso, però, deve essere integrato da un ulteriore elemento tipico degli eventi interruttivi del consolidato fiscale: tutti gli eventi interruttivi del consolidato fiscale sopra menzionati sono caratterizzati dall’intervento dell’Autorità giudiziaria e danno luogo, oltre che alla liquidazione dell’impresa, anche alla determinazione del reddito nel periodo della liquidazione sulla base di criteri totalmente diversi da quelli ordinari utilizzati dalle imprese nel regime di consolidato fiscale (circostanza, quest’ultima, non ricorrente in caso di liquidazione volontaria).

Si pensi al fallimento e alla liquidazione coatta amministrativa, per i quali si applica il regime di determinazione del reddito imponibile stabilito dall’art. 183 del TUIR[7], da cui discende che solo in presenza di un residuo attivo (che sia inoltre eccedente il valore fiscale del patrimonio netto esistente alla data di avvio della procedura concorsuale) dopo il soddisfacimento integrale dei creditori può sorgere un reddito tassabile, che è quindi raramente realizzabile; ovvero all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza con finalità liquidatorie, cui si applica – non a caso – la medesima disciplina fiscale del fallimento prevista dal citato art. 183 del TUIR, con il medesimo effetto di escludere nella generalità dei casi la produzione di un reddito imponibile; o, ancora, al concordato preventivo “liquidatorio”, che trova il proprio regime di determinazione del reddito negli artt. 86 e 88 del TUIR, dalla cui applicazione, in considerazione delle detassazioni da essi previste, altrettanto difficilmente possono essere apportati al consolidato fiscale redditi imponibili che incrementino le imposte dovute dal gruppo, mentre possono esservi ben più probabilmente apportate perdite e crediti d’imposta suscettibili di ridurre gli oneri fiscali della fiscal unit.

Come è evidente, trattasi di regimi di determinazione dei redditi del tutto peculiari (“speciali”), per effetto della cui applicazione, al contrario di quanto accade nell’ambito della liquidazione volontaria, le imprese che li adottano – ove continuasse la tassazione di gruppo – raramente apporterebbero redditi imponibili al consolidato fiscale, mentre, più agevolmente e più probabilmente, apporterebbero perdite e crediti d’imposta.

Ciò è confermato, peraltro, dalla “Relazione allo schema di decreto legislativo recante riforma dell’imposizione sul reddito delle società in attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere da a) a o), della legge 7 aprile 2003, n. 80”, in cui viene esplicitato, tra gli aspetti fondamentali della riforma relativa all’Imposta sul reddito delle società (IRES), per le società che adottano il consolidato fiscale, che  «il consolidato non è consentito alle controllate che adottano regimi fiscali particolari secondo i quali non trovano riscontro l’applicazione dell’aliquota unica del 33 per cento. In proposito, pertanto, la ratio dell’esclusione è stata ravvisata non già nella diversità delle attività economiche svolte (i cui limiti, peraltro, sono ben difficili da determinarsi all’interno di un gruppo), bensì a trattamenti tributari differenziati per effetto di una diversa aliquota d’imposta. Non possono, altresì, partecipare al consolidato le società soggette a fallimento o liquidazione coatta amministrativa».

Orbene, se è vero che la relazione allo schema di decreto legislativo parla di «trattamenti fiscali differenziati» facendo esclusivo riferimento alla «diversa aliquota d’imposta», è altresì evidente come «nelle intenzioni del legislatore vi fosse la volontà di razionalizzare la procedura di riscossione, e non quella di concedere ingiustificate ed indistinte regalie alle imprese appartenenti a gruppi di società»[8]. Ora, parrebbe limitativo circoscrivere la definizione di «trattamenti tributari differenziati» al fattore «aliquota d’imposta», escludendo le (eventuali) disposizioni fiscali di favore che hanno trovato applicazione ai fini della determinazione del reddito imponibile IRES. Infatti, anche l’applicazione di siffatte disposizioni ben potrebbe generare quell’effetto (i.e., le «indistinte regalie alle imprese appartenenti a gruppi») che il legislatore fiscale ha inteso evitare.

Appare chiaro, allora, come la prosecuzione del regime di tassazione di gruppo, in simili circostanze, finirebbe per dar corso a una sorta di “partita truccata”, dove il Fisco non ha nulla da guadagnare e può solo rimetterci, il che, al ricorrere delle predette circostanze, rende necessaria e pienamente giustificata l’interruzione del regime di tassazione consolidata.

Queste considerazioni trovano conforto nel disposto dell’art. 160 del TUIR, ai sensi del quale le imprese marittime che hanno esercitato l’opzione per il cosiddetto regime di tonnage tax previsto dagli artt. 155 e ss. del TUIR non possono esercitare anche l’opzione per il consolidato fiscale, né in qualità di controllanti, né di controllate; ciò, evidentemente, proprio perché, in quanto soggette al regime di tonnage tax, determinano il loro reddito imponibile mediante criteri forfettari non omogenei con quelli ordinari utilizzati dai soggetti che aderiscono alla tassazione di gruppo.

Non contrastano, peraltro, con queste affermazioni le disposizioni che consentono la partecipazione al regime del consolidato fiscale alle società che beneficiano di esenzioni, totali o parziali, dall’imposizione del reddito, posto che queste non comportano l’adozione di diversi criteri di determinazione del reddito stesso, ma solo la sottrazione all’imposizione del reddito una volta determinato sulla base dei criteri ordinari.

Né vi contrasta la possibilità, per le società agricole, di aderire alla tassazione di gruppo, nonostante determinino il loro reddito sulla base di criteri catastali, in considerazione della ragione per cui tale possibilità non è stata esclusa (mancando una previsione in tal senso nella legge); possibilità che peraltro riguarda solo il ruolo di società consolidata e non anche quello di consolidante, per il quale l’adesione non è comunque consentita.

 

4. Conclusioni

Per le ragioni sistematiche e teleologiche sopra esposte, è possibile affermare che l’interruzione del regime di consolidato fiscale di cui agli art. 117 e ss. del TUIR richiede e presuppone che dagli eventi che la determinano derivi, innanzi tutto, la liquidazione sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria, e la conseguente estinzione, della società interessata dall’evento (non solo la liquidazione del suo patrimonio) e, allo stesso tempo, l’applicazione di un regime di tassazione (della società sottoposta a procedura “liquidatoria”) informato a criteri di determinazione del reddito imponibile diversi da quelli ordinari.

In caso contrario, non sussistono i presupposti normativi per alcuna interruzione del regime di tassazione di gruppo, nonostante una o più delle imprese partecipanti al consolidato fiscali siano assoggettate ad una procedura di concordato preventivo, sia essa qualificata, ai fini della legge fallimentare, come “in continuità”, sia “liquidatoria”.

Al tempo stesso (e a conferma di quanto sopra affermato), l’interruzione del regime di consolidato fiscale si produce nel caso in cui una o più società aderenti a tale regime vengano assoggettate a una procedura di concordato preventivo che, ancorché qualificata come “in continuità” ai fini concorsuali, preveda comunque l’estinzione dell’impresa e dia, quindi, luogo alla determinazione del reddito imponibile secondo criteri diversi da quelli ordinari.

In linea di principio, la finalità di estinguere l’impresa ad opera o sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria e la determinazione del reddito imponibile secondo criteri diversi da quelli ordinari costituiscono effetti tipici del concordato preventivo “liquidatorio”, per effetto della cui omologazione si verifica dunque una causa di interruzione del regime di consolidato fiscale cui l’impresa concordataria abbia precedentemente aderito.

Tuttavia, ciò che rileva ai fini dell’interruzione del regime di tassazione di gruppo non è il nomen iuris della procedura concordataria, ma il fatto che essa, indipendentemente dalla sua qualificazione ai fine della legge fallimentare, produca tutti gli effetti testé menzionati, in linea con la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello n. 462/2019.

Il concordato preventivo ha natura «meramente liquidatoria» nella misura in cui la procedura concorsuale sia “puramente” (i.e., esclusivamente) liquidatoria, ossia finalizzata all’integrale dismissione dell’attivo e alla conseguente estinzione della società stessa.

Per ragioni di coerenza, nell’ambito delle considerazioni complessivamente svolte dall’Agenzia delle Entrate nei documenti di prassi sopra esaminati e, non da ultimo, nel rispetto della ratio legislativa in materia di cause di interruzione del consolidato fiscale riferite agli istituti concorsuali di natura liquidatoria, ai fini dell’interruzione del consolidato fiscale rileva la circostanza che il concordato preventivo sia finalizzato all’integrale liquidazione dei beni aziendali, ad opera o sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria, con successiva estinzione della società.

Al di fuori di tale ipotesi, vi è sempre una continuità aziendale (per quanto risanata) che porta ed escludere l’interruzione del regime di tassazione di gruppo. L’Amministrazione finanziaria non ha un potere riqualificatorio della natura giuridica del concordato preventivo ovvero non può modificare in “liquidatorio” un concordato preventivo giudizialmente qualificato “in continuità” (e viceversa), implicando tale esercizio una valutazione di interessi economico-sociali preclusa dall’Amministrazione finanziaria, essendo, viceversa, prerogativa esclusiva del legislatore e dell’Autorità giudiziaria.

Può, invece, valutare la situazione concreta generata dalla procedura concordataria (e concorsuale in generale), elemento rilevante ai fini dell’individuazione del corretto regime fiscale della procedura e, quindi, per comprendere se sia integrata o meno una causa di interruzione del consolidato fiscale, in ogni caso fornendo adeguata prova laddove gli effetti della procedura concorsuale siano ritenuti diversi da quelli fisiologici (i.e., sulla base del mero nomen iuris) della procedura concorsuale come qualificata dall’Autorità giudiziaria.

[1] Attuativo delle disposizioni in materia di consolidato fiscale di cui agli artt. 117 e ss. del TUIR.

[2] Abrogativo e sostituito del D.M. 9 giugno 2004.

[3] Eminentemente disciplinata dal D.Lgs. n. 270/1999 (c.d. Legge Prodi-bis).

[4] Ai sensi dell’art. 88, comma 4-ter, del TUIR, «Non si considerano, altresì, sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo liquidatorio o di procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni, o per effetto della partecipazione delle perdite da parte dell’associato in partecipazione. In caso di concordato di risanamento, di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), del citato regio decreto n. 267 del 1942, pubblicato nel registro delle imprese, o di procedure estere a queste equivalenti, la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’articolo 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento, la deduzione di periodo e l’eccedenza relativa all’aiuto alla crescita economica di cui all’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di cui al comma 4 dell’articolo 96 del presente testo unico. Ai fini del presente comma rilevano anche le perdite trasferite al consolidato nazionale di cui all’articolo 117 e non ancora utilizzate. Le disposizioni del presente comma si applicano anche per le operazioni di cui al comma 4-bis».

[5] Come già evidenziato, la liquidazione giudiziale non è istituto “interruttivo” introdotto dal legislatore in senso stretto, bensì da fonte normativa di rango secondario (D.M. 9 giugno 2004).

[6] Art. 119, comma 2, TUIR e art. 11, comma 7, D.M. 1° marzo 2018.

[7] Ai sensi dell’art. 183, commi 1 e 2, del TUIR, «1. Nei casi di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa il reddito di impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio dell’esercizio e la dichiarazione di fallimento o il provvedimento che ordina la liquidazione è determinato in base al bilancio redatto dal curatore o dal commissario liquidatore. Per le imprese individuali e per le società in nome collettivo e in accomandita semplice il detto reddito concorre a formare il reddito complessivo dell’imprenditore, dei familiari partecipanti all’impresa o dei soci relativo al periodo di imposta in corso alla data della dichiarazione di fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione.

  1. Il reddito di impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale, quale che sia la durata di questo ed anche se vi è stato esercizio provvisorio, è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti. Il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento concorsuale è determinato mediante il confronto secondo i valori riconosciuti ai fini delle imposte sui redditi, tra le attività e le passività risultanti dal bilancio di cui al comma 1, redatto e allegato alla dichiarazione iniziale del curatore o dal commissario liquidatore. Il patrimonio netto è considerato nullo se l’ammontare delle passività è pari o superiore a quello delle attività».

[8]  F. e L. Dezzani, D.M 9 giugno 2004: il consolidato fiscale nazionale. I soggetti ammessi e gli adempimenti, in “il fisco”, 1, n. 26/2004, p. 3970.